HomeVISIONIRecensioniVeronica. Quando la pagina convince più della scena

Veronica. Quando la pagina convince più della scena

foto di fabio M. Franceschelli

Sarà in scena fino a domenica prossima al Teatro Orologio di Roma l’ultimo lavoro di Fabio Massimo Franceschelli: Veronica.
È intuibile, dal nome con cui si presenta lo spettacolo, che la protagonista sia una donna, e con un certo intuito è facile capire quale sia il primo riferimento della composizione letteraria. Ispirato principalmente dalle vicende che hanno visto Veronica Lario conquistarsi il cuore degli italiani – grazie al suo atto di ribellione verso il comandante supremo –, Franceschelli ha intessuto un fine pamphlet che tramuta lo spunto iniziale e cronachistico in un ragionamento ben più ampio sulla nostra società perennemente fallocratica.

Vero perciò quello che asserisce Enrico Bernard nella sua prefazione all’edizione del testo nella collana Scena Muta, definendo l’operazione come una «rappresentazione del contrasto arcaico tra l’eterno femminino e il potere fallico del dio unico maschilista. E al centro del discorso di Franceschelli c’è proprio il tema della ribellione femminile a questo tipo di potere “unico” basato sulla prepotenza sessuale […]» C’è insomma una forte componente civile e politica che apre interessanti squarci di riflessione sulla realtà, proprio in un paese come il nostro dove le donne al potere sembrano essere destinate a ruoli di comprimarie, incapaci di salire l’ultimo gradino, quello più alto. Dibattito all’ordine del giorno ormai da decenni, che ultimamente si insinua (mascherato) anche nella crisi politica del centro destra, si veda il grottesco tentativo di Presa della Bastiglia dell’Onorevole Santanché.

Che Franceshelli tradisca da subito il trampolino della cronaca e del gossip è evidente anche prima che l’intreccio arrivi a misurarsi con l’episodio dello Studio Ovale di Clinton o con gli eventi legati a Dominique StraussKahn: nella forma è il soliloquio di una donna a un ipotetico giudice, ma nei contenuti è il J’Accuse di cui sopra. L’universalità a cui ambisce la prassi dell’autore è infatti mediata non solo dall’innesto dei due affaire internazionali a luci rosse, ma anche dal prologo dedicato a Nora di Ibsen e dalla citazione della Medea di Euripide presente con l’approssimarsi delle ultime battute. Un cerchio fuori dal tempo che tiene dentro gli eventi contemporanei senza far sperare in una via d’uscita: quasi a riconoscere una tara antropologica nel civilizzato Occidente.

foto di fabio M. Franceschelli

Tutto questo è già nel testo, in una scrittura vivace che percorre le pagine veloce come una lama, tanto da farci affermare la sua compiutezza nella forma letteraria. Ma quando i caratteri balzano dalla carta al palcoscenico, qualcosa si perde in quell’inafferrabile macchina delle emozioni e del pensiero che è il teatro. Di certo non solo per causa di Cristina Aubry, fedele interprete (sarà proprio la fedeltà il problema?), incapace però di rapire l’attenzione dello spettatore e di sorprenderlo, o di una regia (a opera dello stesso autore) impigrita su un codice fin troppo riconoscibile, tanto che nel disegno luci si ritrovano i conseguenti movimenti dell’attrice, sempre intenta a seguire il calore dei proiettori, come manuale insegna.

Certo il testo non aiuta, ché il monologo di per sé già rappresenta il superamento del dramma a favore dell‘epos, ma nel caso di Veronica lo spostamento è ancora più radicale: gli accadimenti sono disposti, tra i ricordi degli spettatori, in un puzzle mediatico molto vivido e potente, già spettacolarizzato. L’utilizzo della finzione, ovvero di un’attrice che interpreta (nel modo più classico) il personaggio di Veronica, il suo rivolgersi continuamente a un giudice invisibile, l’utilizzo della scatola teatrale in termini tradizionali creano un’aspettativa drammatica inevitabilmente tradita dal testo.

Ecco dunque che la lettura, dando il tempo dell’elaborazione mentale e personale, supera qualsiasi difficoltà di mise en scène, ma il teatro no: è spietatamente teatrale.

Andrea Pocosgnich

in scena fino al 28 ottobre 2012
Teatro Orologio (sala grande)
Roma

VERONICA

di Fabio M. Franceschelli
regia Fabio M. Franceschelli
con Cristina Aubry

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2 COMMENTS

  1. Grazie Andrea per la recensione che trovo molto ben scritta e argomentata… comunque positiva, e grazie per le lodi alla parte autoriale.
    La tua parte più strettamente critica, invece, secondo me merita una lunga riflessione che provo ad impostare.

    Ho assistito in questi giorni di rappresentazione di VERONICA ad una sorprendente “tripartizione” del pubblico, sorprendente soprattutto per la nettezza, quasi matematica, delle reazioni allo spettacolo.
    Il primo gruppo che individuo è stato quello di un pubblico di teatranti abbastanza legato agli stessi ambienti da cui (come tu sai) provengo, sono nato e cresciuto. Gli ambienti del teatro indipendente e di ricerca (che poi è il principale referente della stessa Teatro e Critica).
    Il secondo gruppo è stato quello di un pubblico di teatranti più vicino al teatro di prosa, quindi inevitabilmente classico o tradizionale, qual dir si voglia.
    Infine, il terzo gruppo, il pubblico “normale”, quello di gente che va a teatro solo in veste di spettatore, insomma i non teatranti (purtroppo sempre pochi).
    Queste ultime due parti, i teatranti “tradizionali” e il pubblico “normale”, hanno reagito positivamente tanto al testo quanto alla messa in scena (messa in scena che, trattandosi di un monologo, è soprattutto interpretazione). Una reazione a tratti enfatica, con persone letteralmente conquistate da ciò che avevano assistito, colpite nel loro profondo, affascinate dalla gamma di emozioni che Cristina Aubry aveva saputo trasmettergli (vedi anche la recensione di dramma.it).
    Il primo gruppo, invece, (che poi sono quasi tutti miei amici) ha accolto il lavoro con più freddezza, apprezzando più o meno il testo ma esprimendo forti dubbi sull’efficacia della scrittura scenica.

    Da queste premesse empiricamente sperimentate la prima conclusione che traggo – molto ovvia, ma che è sempre bene ribadire – è che una volta che siamo d’accordo su quel minimo di professionalità che ogni lavoro deve avere, tutto il resto è soggettivo o, ancora meglio, gusto personale. E questo vale per tutti, per chi presenta il lavoro, per chi vi assiste, per il critico che ne parla bene e per quello che ne parla male. Quando tu scrivi che Cristina Aubry è «incapace di rapire l’attenzione dello spettatore e di sorprenderlo» ti devi ricordare che quello spettatore sei tu, e quindi Cristina Aubry è stata incapace di rapire la TUA attenzione, non quella di un generico onnicomprensivo spettatore che non esiste. Altrimenti leggendoti sembrerebbe che tutti gli spettatori siano usciti annoiati dallo spettacolo il che, almeno riguardo alla replica a cui hai assistito, non è vero, soprattutto visto il coro di “brava brava” esploso alla fine e rivolto all’attrice.
    Questa premessa sulla soggettività del discorso critico è qualcosa che tutti i critici tendono a dimenticare, proiettando il loro gusto o le loro sensazioni a tutto il pubblico. Ovviamente, come già detto, questo vale tanto per i detrattori quanto per i lodatori. E vale anche quando il discorso critico è svolto con ineccepibile coerenza e consequenzialità, come nel caso della tua recensione.

    La seconda conclusione non è una conclusione ma un dubbio. La tripartizione di cui ho parlato sopra cosa nasconde? Vorrei uscire dalla logica del “io capisco di teatro mentre quello non capisce un c…”.
    Non voglio fare il maestrino e non voglio che qualcuno lo faccia con me. Quindi semplicemente mi chiedo se per caso esista una generazione di persone talmente abituate al concetto di teatro immagine da non poter sopportare un teatro che, appunto, più che immagine è semplicemente testo e voce, buon testo e buona voce. Mi chiedo se di fronte ad un immaginario da decenni strutturato sulla velocità, sulla sincope, sul videoclip, sul grottesco a tutti i costi (e io di spettacoli grotteschi ne ho fatti tanti), sulla provocazione urlata, sulla sorpresa impensata, non risieda proprio nella stasi (testo e voce) la più coraggiosa forma di resistenza teatrale, una stasi che non è necessariamente banale “tradizione” e che non si può ridurre ad una «regia impigrita su un codice fin troppo riconoscibile», ma che (almeno nel mio caso) è una scelta consapevolmente seguita sin dal primo giorno in cui ho iniziato a lavorare su VERONICA, la ricerca di un “grado zero” del (mio) teatro, la ricerca di una persona (io) che non sopporta più quelle stratificate incrostazioni di scrittura scenica fin troppo abusate da tutti da essere ormai divenute noioso e vuoto manierismo, e che spesso nascondono dietro l’abbondanza delle trovate l’inesistenza di spessore artistico, umano e intellettuale. Una stasi che guarda al minimalismo, alle minuscole sfumature, ad un sentimento che per essere percepito non deve per forza essere urlato o sbattuto in faccia, ad una musicalità che non vuole martellare la testa ma ipnotizzare in virtù della sua circolarità. Una ricerca di stasi che poi deriva sostanzialmente dal mio amore per Cechov, ed un percorso che parte dal mio Zio Vanja fatto nel 2005. Ci sono riuscito? Per molti sì, per molti no… come poi sempre accade.

    Insomma, tu concludi dicendo che il teatro è spietatamente teatrale. Concordo ma ribadisco che non c’è UN teatro ma ognuno di noi ha il SUO teatro, il suo percorso, la sua sensibilità, e quindi gli imperativi su cosa è o deve essere il teatro né io né Cristina, a questo punto della nostra vita, ci va di starli a sentire.
    Non c’è UN teatro ma ognuno di noi ha il SUO teatro, ed è per questo che io (almeno in questa fase del mio percorso) mi annoio a morte ad assistere a buona parte degli spettacoli che invece Teatro e Critica esalta.
    In compenso non mi annoio mai a leggere le vostre critiche che sono sempre le più stimolanti per la mia verve polemica, e che comunque mi inducono a riflettere, così come spero la mia replica farà a te.

    Ciao
    Fabio

  2. sono molto d’accordo con tutto il commento di Fabio, pur facendo parte tutto sommato di quel primo segmento della “tripartizione” e pur trovando un po’ vago e impreciso tutto il passaggio in cui parla di teatro immagine, teatro urlato etc. A me lo spettacolo è piaciuto, ma ho chiaramente la mia sensibilità, attoriale e registica (e da spettatore soggettivo) che fa da filtro, grosso filtro. Soggettiva, certo, ma per me oggettiva, l’unica realtà che sia mia e che vivo con calore mentre guardo uno spettacolo. Per me la regia è molto buona, c’è un gusto ad esempio nell’utilizzo delle musiche che è tipicamente tuo e che, qui utilizzato volutamente “sottovoce”, ho apprezzato moltissimo. Le luci sono belle. Forse, per i miei gusti e per i miei percorsi negli anni, un po’ troppo tese a sottolienare con qualche ridondanza alcuni passaggi (forse anche proprio per come le hai date tu la sera che ho visto il lavoro, ovvero molto brusche, con cambi molto netti e veloci) ma belle. Cristina è molto bravo, non è la prima volta che la vedo, che lo penso o che lo dico. Indubbiamente, ma certo volontariamente da parte sia tua che sua, c’è qualcosa in lei di “attrice” in un senso che per uno spettatore come me non può non creare distanza e una relativa freddezza, sono sempre un po’ occupato a riconoscere il mestiere, la pulizia, la bravura e meno a, come direbbe uno spettatore normale, “farmi prendere”. Questo certo è un problema che ho per gusti personali ed obiettiva raffinatezza dello sguardo (raffinato naturalmente anche in direzione dei miei gusti personali) e non riguarda di solito solo gli attori ma anche le strutture narrative o drammaturgiche. Quando tutto mi funziona troppo, quando ci sento il mestiere (o nei casi peggiori il clichè), che so, il discorso per me vale anche per la musica, per quei gruppi supertecnici, mi irrito sempre profondamente, o perlomeno mi raffreddo. A meno che, sempre restando sull’esempio della musica, piuttosto che di fronte a un gruppo bravissimo ma non troppo geniale (che so, penso a tanti gruppi metal precisissimi con gli assoli pulitissimi e velocissimi) non mi trovi nelle orecchie il genio di Frank Zappa.
    Di fondo credo ci sia un problema, però, non sto parlando dello spettacolo, ed in questo son veramente daccordo con fabio, un atteggiamento, anche in buona fede, anche inconsapevole di snobbismo estremo, cui ci porta proprio l’appartenere a questa nicchia intellighente, o sedicente tale. Per cui il problema è veramente che, di fondo, uno ha la tentazione, incoraggiata da tutto il demimonde circostante o quasi, di pensare per davvero “io capisco di teatro mentre quello non capisce un c…”, o peggio ancora “io sono nel gotha del teatrello perché quello che faccio è di livello nazionale/internazionale, io sì che ho diritto di lavorare, il resto è mediocritas”.
    Cose così, insomma.
    Come sempre inconcludente, contribuisco, comunque 🙂

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