È vero che gli argomenti sono qualcosa di ciclico. Tornano come torna la marea. Più li si mette da parte, più loro si impuntano e i termini della discussione, rinnovati, si armano di nuova energia, affinano determinazione. Li aiuta l’emergenza, l’urgenza effettiva, ancora in fiamme prima che si tramuti in luogo comune. Ed ecco perché torniamo sempre, di questi tempi, a parlare di spazi. Gli spazi (non solo fisici) di cui ogni arte performativa avrebbe bisogno, quelli che ora svaniscono allo stesso vertiginoso ritmo con cui cresce la necessità che si ha di loro. Ormai possiamo parlare a pieno titolo di resistenza.
Come di resistenza parla l’ultimo progetto di Roberto Latini, Seppure voleste colpire, al debutto a Roma al Teatro Argot Studio; una showcase di emergenze che si mettono in campo quasi senza difese, rovesciando letteralmente sul palco un campionario di tentativi scenici il cui massimo comune denominatore è una sorta di grido. Non un grido d’aiuto, non un S.O.S. che attende una risposta, ma la dichiarazione chiara e decisa di uno stato d’assedio in cui l’unica e ultima prospettiva è quella della resistenza. «Noi siamo qui e qui resteremo fino all’ultimo momento», sembrano avere come morale comune tutte le performance di cui Latini si circonda. E torna alla mente il secondo capitolo del progetto Noosfera, Titanic, in cui l’attore romano era solo a combattere contro un naufragio. Della stessa potenza compressa, dell’ingrossarsi delle vene del collo, dei passi di attesa che occupano il silenzio, di tutto questo vive anche questo nuovo lavoro, tuttavia lontano dal volersi presentare come qualcosa di finito.
La forma è infatti quella fluida di un avvicendarsi di assoli, affidati a diversi interpreti in un modo o nell’altro legati – ci sembra di dover capire – non tanto a Latini, quanto all’esigenza cui egli vuole dare voce. In questa struttura che rifugge ogni logica di climax o di reale costruzione drammaturgica, gli abbinamenti sono molteplici: nella seconda serata all’Argot un monologo del Caligola di Camus ha potuto lasciare il posto a un passo di danza solitaria di Alessandra Cristiani, come sempre eterea eppure sanguigna, il corpo teso a corda di violino e lo sguardo infuocato e presente o a un monologo di Elena De Carolis (con un brano da Ismene di Ghiannis Ritsos) o di Savino Paparella. In quest’ultimo, la voce strozzata dall’accento pugliese e un sopraffino e severo controllo del corpo inghiottiscono quasi il senso delle parole di Rimbaud (L’orgia parigina), tanto che forse il punto proprio lì si è spostato, nell’esposizione totale di un borbottio di fondo, quello di chi è arrivato al limite dell’ossigeno e tra poco smetterà del tutto di respirare. Ma c’era poi l’esatto opposto, l’intervento di Massimiliano Civica, gambe accavallate con sopra il taccuino da cui sbirciare appunti di aneddoti sulla vita e sulla figura di Eduardo (il cognome non c’è stato neppure bisogno di citarlo).
Perso è anche il gusto anche per le luci a effetto, ché i suoni di Gianluca Misiti bastano a fare da raccordo in questo circo sbilenco e disilluso nel quale, ora qui ora lì, tornano i feticci di Latini, il microfono e la sua asta. E poi quell’attrezzo così sfacciatamente simbolico, una mazza da golf, espressione di qualcosa di rozzo elevato ad allegoria di stile, la punta di ferro che riflette le luci e il gioco un po’ infantile a passarsi, con piccoli tocchi, le palline.
Roberto Latini sceglie una via estrema che neppure nella comoda forma “a numeri” riesce a essere del tutto rassicurante. L’ermetismo che qui, come altrove, ne caratterizza il linguaggio e pure una certa eleganza e presenza – qui espresse anche dagli altri interpreti al punto da rendere comunque chiara una regia che li disciplina – riesce in ogni caso a catalizzare l’attenzione. Dopo tutto il titolo parla chiaro. La citazione de La Tempesta «Seppure voleste colpire, le vostre spade sono ora troppo pesanti per le vostre forze. Non potreste nemmeno sollevarle». Di questo si racconta, di armi che non funzioneranno, neanche a volerle usarle, neanche a poterle usare. Il testo originale di Shakespeare suonava infatti così: «if you could hurt», «se pur foste in grado di colpire ».
Sergio Lo Gatto
visto il 10 ottobre 2012 al Teatro Argot Studio di Roma (vai al cartellone)
SEPPURE VOLESTE COLPIRE – programma di battaglie per la resistenza teatrale
da Shakespeare, Camus, Ritsos, Rimbaud
di Roberto Latini
con Massimiliano Civica, Alessandra Cristiani, Elena De Carolis, Roberto Latini, Savino Paparella
musiche Gianluca Misiti