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Roma, anno zero/zero. La stagione 2012/13

Tutto per Bene - Gabriele Lavia

Mentre questo articolo viene scritto mancano pochi giorni all’inizio di Short Theatre, manifestazione diretta da Fabrizio Arcuri e nata sette anni fa come rassegna di corti teatrali, ora festival nazionale di primo piano, nel quale è possibile scoprire non solo alcuni tra i più importanti artisti della scena performativa nazionale, ma anche puntare gli occhi verso i confini, spostare lo sguardo sulla ricerca teatrale europea. Una rassegna in effetti mai doma, capace di far dialogare la scena con le arti visive e con la musica rendendo molte volte incomprensibili i confini, in un processo osmotico vivificante per gli spettatori e per gli spazi cittadini che dall’evento vengono attraversati. Il festival di Arcuri è paragonabile, come impatto sulla comunità teatrale, solo a Teatri di Vetro. Rassegna quest’ultima che guarda caso chiude la stagione (svolgendosi a Maggio) invece di aprirla come accade con Short. Due manifestazioni create negli stessi anni: era l’inizio del millennio e soggetti produttivi – oltre che artistici – si affacciavano sulla scena romana, non solo quella underground. Spesso anche in questa rivista abbiamo parlato dell’importanza che hanno avuto spazi come il vecchio Angelo Mai o il Rialto, nei quali si cominciava a gettare le fondamenta di quella comunità teatrale a cui oggi siamo abituati, nasceva contemporaneamente una nuova critica sul web in ascolto delle nuove generazioni artistiche. A Roma siamo abituati adassistere alla nascita e all’immediata morte di idee e luoghi, a vedere la geografia culturale mutare di anno in anno seguendo la giungla di decisioni e delibere assunte ed emesse dal Campidoglio, ma quella che avremo davanti sembra a tutti gli effetti una “stagione zero”.

Passati i quindici giorni di Short Theatre e il successivo periodo di Romaeuropa Festival – colpevole di farci sentire in Europa per un mese e mezzo – non rimane molto altro alla scena capitolina proprio fino a Teatri di Vetro. Il Teatro Valle, occupato da più di un anno, attende di uscire fuori dal tunnel dell’impasse burocratica con la costituzione di una fondazione creata dal basso e propone una stagione all’insegna della formazione con nomi di livello internazionale quali Rafael Spregelburd, Luca Ronconi, Rem & Cap, Fausto Paravidino, Motus, Antonio Latella. Il Teatro India tenterà di riscoprire, anche se per poco, la sua vocazione, quella a cui pensò Mario Martone quando negli impolverati spazi della ex-Miralanza fondò un teatro all’ombra del gazometro, l’idea di una scena d’arte per la città. Diciotto compagnie in autunno tenteranno di animarlo con brevi lavori inediti, che avranno come tema comune il concetto di perdita, per poi lasciarlo ai lavori di ristrutturazione voluti dalla gestione Scaglia/Lavia.

La resistibile ascesa di Arturo Ui – Claudio Longhi

Eravamo abituati troppo bene? Fino a qualche anno fa riuscivamo a contenderci il primato della migliore offerta teatrale con Milano. Potevamo scherzare con i colleghi lombardi sul fatto che tutto passa prima a Roma, che è qui che si scoprono i talenti: «Certo voi avete il vostro Teatro d’Europa (il Piccolo), ma è dall’underground romano
che si irradiano le nuove strade». Una volta, forse, ora il confronto non sta più in piedi. A Roma mancano quei luoghi di transito che permettono il dialogo tra gli Stabili (pubblici e privati) e quelle che una volta chiamavamo cantine. Ma la discussione si complica nel momento i cui le cantine di oggi, ovvero i centri sociali come il Kollatino Underground e l’Angelo Mai, sono in difficoltà perché perennemente ai ferri corti con l’Amministrazione.

E gli ottanta teatri di cui tanto andiamo fieri? Una buona parte continua a intraprendere una vocazione fondamentalmente commerciale inseguendo l’intrattenimento televisivo tra cabaret, prevedibili commedie, match di improvvisazione e stornelli romaneschi. Altri una vocazione non la possiedono da tempo, se mai l’hanno avuta, e sono poco più che affittacamere. E le nuove generazioni? Piccoli spiragli di speranza si intravedono in teatri come l’Argot, con la direzione di Tiziano Panici e Francesco Frangipane, o l’Orologio con la gestione degli ultimi anni (si spera possa continuare nonostante i problemi con la passata direzione) di Fabio Morgan: soggetti sempre in bilico, costretti a barcamenarsi tra spese enormi e una volontà di ferro nel fare dei propri spazi luoghi d’arte, facili prede di proprietari immobiliari senza troppi scrupoli. E a chiudere la saracinesca ci vuole poco: basta l’aumento dell’affitto, rischio che si sta palesando per il Metateatro di Pippo Di Marca. Attendiamo anche la seconda stagione organizzata da OffRome e Fanfulla Teatro negli spazi dell’Arci in via Fanfulla da Lodi: la rassegna dello scorso anno “Parabole fra i sanpietrini” sorprese per la freschezza delle proposte. Ma anche nel caso del piccolo spazio Arci le forze in campo per ora sono fin troppo esigue per incidere lo strato di ghiaccio di cui la città teatrale si sta coprendo.

Per chi se lo fosse dimenticato a Roma abbiamo anche uno stabile d’innovazione, il Vascello, ma anche qui i momenti più interessanti e di vera innovazione sono arrivati grazie al Romaeuropa Festival per poi lasciare il campo a stagioni piuttosto anonime, incapaci di intercettare gli sguardi della scena nazionale e sul versante della ricerca performativa e su quello della drammaturgia. Infine l’argomento più spinoso e controverso: la Casa dei Teatri e della Nuova Drammaturgia. Ideata dall’assessore Gasperini, avrebbe dovuto cambiare pelle proprio a una parte del malconcio sistema teatrale romano e invece, nonostante la pubblicazione della delibera – rimasta fantasma per più di un mese – un’idea che poteva sembrare rivoluzionaria è ora poco più di una scatola vuota, un pacco dono non richiesto che tra l’altro rischia di mandare a monte il lavoro fatto finora con i Teatri di Cintura.

Taking care of baby di Fabrizio Arcuri – Foto di Francesco Squeglia

Lo Stabile nella sua sala principale, l’Argentina, comincia la stagione con progetti di stampo più sperimentale – coprodotti o organizzati in collaborazione con la Fondazione Romaeuropa e le Vie dei Festival – al termine dei quali troviamo due ritorni: il doppio Pirandello di Lavia (Tutto per bene e La Trappola, entrambi andati in scena lo scorso anno), il campione di incassi La resistibile ascesa di Arturo Ui di Claudio Longhi, già passato tre anni fa, e qualche mattatore come Branciaroli e Servillo, che rimettono la stagione sotto un segno più conservatore. Non molto diverso da quanto si scorge nei cartelloni degli altri big: l’Eliseo non rischia nella sala grande riproponendo i soliti Paolo Poli, Leo Gullotta, l’ennesimo Romeo e Giulietta di Binasco, ma sfrutta a dovere il cosiddetto ridotto intitolato alla memoria di Giuseppe Patroni Griffi per tirar dentro aria fresca e, a parte gli eterni giovani come Giampiero Rappa e Fausto Paravidino, arrivano le firme di Tarantino, Riondino, Sarti, Torre e Arcuri. Poi c’è chi un teatro lo ha addirittura aperto, in zona Prati, nostalgicamente chiamato Mille Lire. Avventurieri? L’anno Zero sarà l’anno del tempo immobile, nel quale tutto cambia per rimanere uguale a se stesso.

Andrea Pocosgnich

Articolo uscito su Ottobre 2012 dei Quaderni del Teatro di Roma. Per gentile concessione.

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7 COMMENTS

  1. Ciao
    io lavoro con i Match di Improvvisazione Teatrale. E mentre io non mi nego il piacere di uno spettacolo dell’underground romano, voi liquidate i match come “cabaret prevedibile”. Forse lo sono. Ma credo che il punto sia un altro. Credo che il punto sia che finchè la transavanguardia teatrale romano nazionale tenga le porte chiuse a tutto quello che non considera familiare o ortodosso al suo modo di vedere il teatro, c’è poca strada da fare. Vabè. Punti di vista. Saluti.

    • Ciao Francesco,
      chi ha liquidato i match come “cabaret prevedibile”? Il periodo come l’ho scritto non dice questo, comunque ammetterai che il mondo dell’improvvisazione teatrale è una cosa a sé. E’ proprio un altro universo, che io definirei più sportivo che artistico: dunque come pretendi che si metta in comunicazione con quella che tu chiami “transavanguardia teatrale”? Tra l’altro se non fosse radicale l’avanguardia non sarebbe tale. Poi è chiaro che i due mondi in questione condividono spazi e linguaggi, ma con finalità, secondo me, totalmente differenti. Un po’ come il trapezista e il ginnasta: è chiaro che la ginnastica artistica è tra le basi di molti artisti circensi, ma mentre la seconda punta alla medaglia d’oro come primo obiettivo il primo sogna lo stupore del pubblico, l’incanto e la poesia.

      ciao

      grazie di aver letto

      Andrea Pocosgnich

  2. Ciao Andrea
    ok, come “prevedibili commedie”. Cambia poco.
    Perdonami, ma non accetto questo dualismo. Il teatro fatto per volare e quello rasoterra. Per chi fa i match la vittoria dell’evento è una cosa scenica, così come arbitro e tutto il resto. A nessuno importa di vincere l’incontro. Ma non è che mi interessi poi tanto difendere i Match, non dico neanche che siano arte elevata. E, mediamente, chi si occupa di quel tipo di improvvisazione non ha alcun tipo di contatto con “il teatro dei trapezisti”, e questo senza dubbio ci limita.
    Quello che lamento io è il confine netto. E forse io sono particolarmente sensibile all’argomento perchè lavoro sia con l’improvvisazione che con il teatro di figura (altro grande escluso dall’orizzonte degli uomini volanti); ma non trovo giusto liquidare così rapidamente quello che non frequentate, non considerarlo “alto”.
    Onestamente non trovo giusto avere un alto e un basso. In un momento in cui il teatro è meno di niente, e gli spazi chiudono, trovo più giusto chiedersi il perchè di tutto questo e prendersi le proprie responsabilità, piuttosto che lamentarsi perchè alcuni spazi sono pieni di “ginnasti” e non di “trapezisti”

  3. Ciao
    io lavoro nei stornelli romaneschi.
    Mi dispiace che siano così bistrattati da una critica che scrive così perché, molto probabilmente, non ha mai posseduto una bella balilla foderata di pelle d’anguilla.

    Resto comunque disponibile per una serenata da dedicare alle vostre amorose, feste di compleanno e cene aziendali.

  4. Scusate tutti,
    io ho proprio l’impressione che le righe di Pocosgnich stiano venendo fraintese del tutto. La frase che include i match di improvvisazione e gli stornelli romaneschi è una frase innanzitutto informativa, di censimento. E, soprattutto, sia in quella che nella frase dopo, come tutto sommato nell’intero pezzo, si parla innanzitutto di *spazi* non tanto di *forme*.
    Caro Francesco, io sono assolutamente d’accordo con te che esistano generi teatrali completamente esclusi all’attenzione degli operatori, della critica e del pubblico. Accanto al teatro di figura (di cui peraltro sono studioso e grande estimatore) ti potrei appoggiare la live art, ad esempio, addirittura la pur popolarissima *performance* (mi riferisco all’orizzonte Abramovich o Dimchev, per capirci). Il vero problema qui sta, hai colto in parte anche tu, nella invincibile tendenza a separare genere dal genere. È in questo modo che non è possibile sprovincializzarsi. Esistono alcune manifestazioni e alcuni spazi in cui queste nicchie di poetica e di forme (vecchio appannaggio di una generazione di critici e di operatori che non esiste più) vengono prese a bastonate, frantumate, esplodono. E il risultato sono programmazioni assolutamente eterogenee in cui – potenzialmente – potrebbe entrare di tutto. Qualche esempio Pocosgnich lo riporta: Romaeuropa su tutti, dove le risorse ci sono e vengono spese in una continua lotta alla sprovincializzazione dello sguardo; ma anche il Teatro Argot viene citato. Lì nel corso di queste stagioni c’è stato spazio veramente per tutto, dal debutto di Latini a nuove drammaturgie, dalla riscrittura di Ibsen fino al teatro di figura e allo stornello romano. Senza che questi ultimi due o altri generi venissero derisi, sminuiti o guardati come estranei alla ricerca teatrale.
    Ma, ancora una volta, stiamo parlando di *spazi*. Questo articolo si riferisce a Roma. E non si limita a frignare per quanti spazi stiano chiudendo, ma cerca di capire dove sia finito quel fuoco di ricerca e sperimentazione; un fuoco che poteva stare in Castellucci come in Ronconi che tirava fuori l’ennesima apparentemente reazionaria drammaturgia romantica, oppure in uno spettacolo di figura o in uno stornello. Celestini si è messo in scena una sedia e ha cominciato a parlare. Ora esce in edicola. Tutte queste energie sono riuscite a dettare nuovi codici di *gestione degli spazi*. Di questo parliamo. Si può essere grandi artisti, fondamentali all’evolversi della storia del teatro, ma se non si riescono a ricavare gli spazi, non ti vede il pubblico, non ti vede la critica, non ti vedono i colleghi (!!!),che è l’handicap maggiore e che porta a un totale e ingenuo appiattimento dei generi, comodi nelle loro nicchie.

    Grazie di aver letto.
    SLG

    • Infatti caro Omar se sulla tastiera premi ctrl+f e nel campo di ricerca scrivi “Arcuri”, il tuo browser ti evidenzierà magicamente quel nome e ti accorgerai che nel mio articolo non faccio mai questa banale equazione Arcuri=nuovo, anche perché non la farei con nessun artista, le cose sono più complicate…

      andrea

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