C’erano una volta gli imprenditori illuminati. Banalmente potrebbe iniziare così la storia di Valdagno, piccolo centro del vicentino nato, per come lo conosciamo ora, attorno alla fabbrica tessile della Marzotto. Erano i primi decenni del novecento e Gaetano Marzotto aveva in mente la costruzione di una vera e propria città sociale: gli alloggi per gli operai, quelli per i dirigenti – cosa volete, imprenditore illuminato non vuol dire socialista – l’asilo nido, la scuola materna, la casa di riposo, lo sport con lo stadio e naturalmente il cinema/teatro, chiamato prima Impero – non si sa mai qualcuno dimentichi l’onore della patria –, poi teatro del Popolo e infine Rivoli.
È una delle prime cose che mi racconta Simone mentre in auto mi porta via dalla stazione di Vicenza, direzione Valdagno. Simone lavora in fabbrica, al controllo qualità, il teatro lo segue spesso e mi chiede consiglio sulla stagione veneta, lui è un operaio illuminato. Mi spiega che il cinema-teatro Impero fu costruito proprio nell’ottica di questa “città sociale”, baluardo dell’intrattenimento e della cultura in una città nella quale era il concetto di comunità a fare da stella polare. A Valdagno il fratello di Simone, Daniele, fa parte dell’associazione Livello 4, giovanissima realtà che da alcuni anni lavora sul territorio per produrre cultura. Ultima espressione di questo agguerrito manipolo di ventenni è il Crash Test, concorso per compagnie under 35 che in questa prima edizione, con la collaborazione del comune, ha messo in palio 1500 euro di premio e organizzato un week-end di spettacoli e workshop. Due giorni nei quali c’è stato uno scambio emozionale e culturale vivo con la cittadinanza e che, al di là del concorso, per il quale sono stato chiamato come giurato, ha avuto il coraggio di rompere la monotonia della cittadina con un segno artistico contemporaneo. Per la cronaca ha vinto lo spettacolo Quod Supererat di Elisa Turco Livieri e Chiara Condro, in finale anche Macelleria Ettore con Elektrika_un’opera techno, Corpo e Cultura di Carlo Massari e Chiara Taviani, Non vedo l’ora di nO (Dance first. Think later), Bramo di 7/8 chili.
Mentre a Valdagno un teatro nasce, quello del piccolo festival Crash Test, sul quale il comune e gli organizzatori dovranno ragionare per far sì che non rimanga uno dei tanti premi a budget minimo, nella stessa città un altro teatro, questa volta luogo fisico, muore. Il Teatro Rivoli, chiuso ormai dall’inizio degli anni Ottanta, sembra essere senza speranze: il comune non ha i mezzi per gestire uno stabile talmente grande da fornire 1861 poltrone (in omaggio all’Unità d’Italia) e per qualsiasi privato sarebbe una spesa folle senza un accordo tra più soggetti. Un enorme pachiderma che se ne sta lì, immobile e vuoto, a farsi mangiare dalla polvere, eppure solo per la quantità di spazi interni probabilmente “sfamerebbe” l’intero Veneto teatrale in quanto a sala prove. Da qualche tempo è nato un gruppo di cittadini a sostegno del teatro, che si è attivato con un comitato scientifico, è stato creato un sito internet dove è possibile conoscere la storia dello spazio progettato da Francesco Bonfanti e guardarne le foto, ma ora inizia a diventare complesso anche eseguire delle semplici visite guidate: gli interni della struttura cominciano a corrodersi e sul palco calcinacci e intonaco palesano la necessità di una ristrutturazione imminente.
Dietro il palco sono accatastate scenografie, oggetti, vecchie sedie, mobili; i camerini sono semplici, ma spaziosi, dall’alto della graticcia si domina la platea. Il pavimento è in legno come le sedute e i due piani di poltrone: uno spazio teatrale oggi decisamente fuori formato. Entrando si nota l’unica locandina immediatamente visibile, è un poster attaccato in alto sopra il botteghino, di un vecchio film con Pippo Franco, a destra c’è il bar. Qui la traccia umana è ancora viva: nelle mensole decine di bottiglie sono ordinatamente allineate. Fernet Branca, l’ampolla dell’Unicum, il Cynar, tutto sembra rimasto immobile a quell’ultima serata, nelle bottiglie si intravedono ancora due dita di liquore. Nessuno ha avuto il coraggio di buttarle via o di portarsele a casa come cimelio di anni trascorsi a lavorare in quel bar, quasi con una certa fiducia nell’uomo e nella sua capacità di riscoprire il bello e il necessario, quelle bottiglie sono rimaste nei propri scaffali ad attendere uno spettatore che mai verrà a chiedere il suo drink prima che il sipario si apra.
Andrea Pocosgnich