HomeVISIONIRecensioniArgot Off: riflessione aperta sulla IV edizione

Argot Off: riflessione aperta sulla IV edizione

"Noi non siamo qui" baby Gang - foto di Federica Lissoni

Roma è attraversata da decine di rassegne teatrali durante tutto l’anno, alcuni sono festival strutturati ormai da tempo, che hanno raggiunto una valenza nazionale radicandosi sulla morfologia estesa del territorio romano, altre nascono attorno a luoghi specifici crescendo dentro la propria casa. È l’esempio, quest’ultimo, di Argot Off, manifestazione conclusasi una settimana fa nel piccolo spazio trasteverino, per la quarta edizione in un teatro ristrutturato che negli ultimi tempi ha cercato di aprirsi sempre di più anche al quartiere che lo circonda.
Argot Off è un sentiero per il futuro, questo almeno l’intento dichiarato nel titolo della rassegna, ma il futuro si costruisce con i mattoni del presente. Il materiale umano e artistico è arrivato in via Natale del Grande sotto forma di progetti e video, qui la direzione artistica formata da Francesco Frangipane e Tiziano Panici si è dovuta misurare con più di 100 proposte per puntare la lente di ingrandimento su 10 spettacoli, frammentata rappresentanza di una scena contemporanea per certi versi appena nata, per altri invisibile ed emblematica, comunque alla ricerca di spazi dove poter agire cercando di contenere i costi.
Un laboratorio dunque, non solo sulle estetiche teatrali, ma anche sulla produzione e organizzazione. La mutazione perenne ha portato infatti anche quest’anno il confronto con la nostra rivista approfondendo quel solco già tracciato nelle stagioni precedenti. Ecco dunque la nostra rinnovata partecipazione non solo nelle vesti di giurati (oltre a chi vi scrive hanno partecipato visionando tutti gli spettacoli Matteo Antonaci, Simone Nebbia e Chiara Pirri), ma come nucleo critico con il quale sperimentare, all’interno di uno spazio di incontro (il lunedì sera) una dialettica diventata oggi sempre più decisiva quando indirizzata verso lo spettatore. In questo senso l’agguerrito gruppo guidato da Giorgio Testa, La casa dello spettatore, è stato uno specchio deformante con il quale confrontarci in un dibattito difficile, ma talvolta interessante.

"Macellum" Matuta teatro - foto www.matutateatro.it

Tornare ora agli spettacoli, quando la nostra funzione di giurati si è in parte esaurita (prima della finale a Orvieto), è complesso ma doveroso. La prima riflessione (di cronaca e non di merito) riguarda la generalità degli spettacoli: per la maggior parte si è trattato di opere ancora acerbe, idee interessanti e temi pregnanti quasi mai risolti nella loro interezza sulla scena. Ci è stato chiesto di segnalare una cinquina di progetti, quelli che avrebbero meritato di “giocarsi” la finalissima allo Stabile di Innovazione di Orvieto, abbiamo, invece, voluto segnalarne quattro. Quelli che a nostro avviso hanno lo sguardo meglio puntato verso il futuro, ma con un peso specifico nel presente. Capaci insomma di aprire, seppur in minima parte, interessanti squarci di dibattito, per i temi affrontati e per le istanze formali all’interno delle quali stanno costruendo il proprio percorso.
Aprono la quaterna le scorribande di Titta Ceccano (protagonista) e Julia Borretti (alla regia) nel dramma didattico di Brecht, Orazi e Curiazi, nella versione di Heiner Müller. Il lavoro di Matuta Teatro convince per l’approccio al testo, narrazione pura e punto d’ascolto riflessivo, ma rallenta la propria azione quando la recitazione ricerca l’effetto dimenticandosi della prossimità del pubblico e di un agire scenico troppo legato alla sola parola.
Altra felice scoperta è stata la compagnia milanese Baby Gang capace di portare una ricerca scenica promettente nella riflessione sull’individuo umano e sulle specifiche teatrali, creando una continua rincorsa tra esistenzialismo e tensioni dell’assurdo. Una certa iteratività parossistica e un accumulo di materiali rendono la percezione forse troppo frammentata e fuggevole.
Simile a quello diretto da Carolina della Calle Casanova (Babygang) per il rapporto tra scena e testo è lo spettacolo della compagnia La Fabbrica (recensione ). Si percepisce una ricerca, alcune volte in eccesso, nella costruzione delle emozioni, nella ritualità che ben lega gesto e musica, parola e smorfia. Straziante l’attesa alla quale sono legati quei tre corpi in scena. Evidentemente figli di Kantor e Gombrowicz sono vecchi/bambini chiusi in un limbo di attesa. A tratti può mancare l’invenzione, il guizzo dell’arte che rimetterebbe tutto in discussione rispetto alla facile alchimia, ma l’immagine complessiva si fissa indelebilmente facendo riecheggiare la negazione del titolo nella nostra testa: “Quando saremo grandi”.

"Vanity Fair Snow White" Collettivo Pirate Jenny - foto www.collettivopiratejenny.com

Chiude la rassegna, e così le nostre scelte, l’unico spettacolo nel quale la danza rientra tra i linguaggi utilizzati. In Vanity Fair Snow White si intravede molto (forse anche troppo) di una certa ricerca anti-spettacolare. Il Collettivo Pirate Jenny mescola le carte e fa capire apertamente di voler cavalcare un’onda precisa, quella di gruppi come Teatro Sotterraneo per l’approccio, Ricci/Forte nella strizzatina d’occhio ad alcuni modelli seriali della società dei consumi e Collettivo Cinetico per l’utilizzo di taluni materiali e riferimenti geometrici, si dichiarano d’altronde pirati e hanno il merito di aver portato una fresca ventata di danza e ironia.

Questi i quattro progetti da noi votati, sui quali abbiamo trovato sintonia di giudizio con la giuria popolare della Casa dello spettatore e con la direzione artistica. Insieme a Orlando Orlando di Stefano Pagin con Stefano Scandaletti (quinto spettacolo segnalato da direzione artistica e giuria popolare) li rivedremo a Orvieto per misurare ancora un possibile dibattito attorno al loro fare teatro, per poi sceglierne uno da ritrovare il prossimo anno in stagione all’Argot.

Andrea Pocosgnich

Leggi il comunicato stampa con i nomi dei 5 finalisti

Programma Argot Off 2012

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