Due donne, un’isola della ex Jugoslavia. Xenia torna nella casa da cui quarant’anni prima, durante la Seconda Guerra Mondiale, era fuggita. Marta, che di quella casa era la governante, ora ne è padrona e lì vive con il figlio David, giovane medico che con Anna – figlia di Xenia – ha una relazione che si ripete estate dopo estate. Complici gli orrori di un passato impossibile da dimenticare e una distanza di ceto sociale, le due donne non sono mai state davvero unite. E ora che Marta è nella fase terminale di una grave malattia, emerge come fungo tenace la necessità di un esorcismo doloroso: attraverso i ricordi di un paradiso deturpato dalle violenze dei nazisti e, ora, dall’avanzare di un progresso che sembra non rispettare memoria alcuna, affiorano rancori e rimorsi. I due giovani stanno lì come simbolo delle generazioni figlie, divise ancora una volta da una lontananza geografica e politica, mentre l’incontro tra Xenia e un turista tedesco all’epoca aguzzino nazista è ulteriore prova di un passato che non riesce a scomparire, ancora scritto nelle crepe dei muri delle fucilazioni.
Summer, quest’ultimo testo di Edward Bond, forse il maggior drammaturgo inglese vivente, vorrebbe riflettere non tanto sulle stragi naziste e sui giochi di potere e i compromessi che avevano permesso al ceto borghese di lavarsi le mani sporche di sangue, quanto piuttosto – e più in generale – sulla forza incontrastabile di un atto di violenza. Un atto qualsiasi, di qualsiasi intensità. Ancor più di quella all’amore, la vocazione alla violenza si fa tratto distintivo dell’uomo. Daniele Salvo, che firma la regia (sulla traduzione pur attenta di Salvatore Cabras e Maggie Rose), presenta questo spettacolo come «teatro d’interpretazione», un genere – sostiene – a cui il pubblico italiano non è più abituato. Della scrittura di Bond parla come di qualcosa di votato al fatto di cronaca, di una crudezza rara, senza orpelli. E questa è, sulla carta, una grande verità. Pochi altri come Bond riescono, con le parole, a trasmettere freddezza e desolazione. E però, come tutte le grandi scritture, esigono da parte della regia (o dell’interpretazione, per usare le parole di Salvo) un rispetto particolare che non sta né nell’annullamento né nella didascalia.
Proprio quella tensione verso il racconto del “fatto di cronaca” si scontra in Bond con una vena irrinunciabilmente lirica. Come nel suo contestatissimo Saved, in cui la scena della lapidazione di un bambino colpiva proprio per il ruvido sfregarsi di due superfici opposte: cronaca e poesia. Tra le righe di questo Summer, testo senza dubbio imperfetto – troppo lungo, troppo verboso e troppo estremo nella declinazione di quel vizio di stile – respira un grande amore per il concetto di memoria. Dopo aver ascoltato racconti infamanti nei confronti dell’amato padre, Xenia dice «ciascuno evidentemente sceglie che cosa ricordare». Qui il dramma esplode proprio nella collisione tra diverse scelte. Non si tratta di punti di vista differenti, ma di vissuti egualmente atroci che, dopo quarant’anni, si sono fossilizzati sul tentativo (assolutamente personale) di dimenticare.
Purtroppo questa messinscena non rispetta affatto il programma dichiarato, che aveva promesso di lasciare al testo lo spazio vitale per far detonare tutte le sue complessità. Luci pastose e patinate, musiche a effetto nei momenti più drammatici, scena formalista che rende didascalico lo spazio, recitazione di attori pur sapienti costantemente impostata su corde monotone, tutto agisce insieme a creare uno spettacolo vecchio di cinquant’anni. Le lunghe, lunghissime tirate con cui i protagonisti scivolano in un’ossessione pornografica per il racconto, vengono trattate tutte (senza esclusione alcuna) come scene madri di uno show da mattatore, schema che alla terza ripetizione ha già stancato, sfinito. Luca Lazzareschi nel ruolo quasi disneyano dell’ex soldato del Reich tradisce la memoria di altre ottime interpretazioni, ridotto a una macchietta che si suda via il trucco sommario agitando continuamente l’indice tremante e ringhiando grottescamente ogni finale di frase. Fuori fuoco anche Elisabetta Pozzi (Xenia), che interpreta una sorta di Blanche Dubois dalle movenze quasi ottocentesche. Melania Giglio (Marta) sarebbe stata su una strada più dritta, non fosse che la regia la guida dritta verso il melodramma, tirando all’eccesso certi tratti che sarebbero stati molto più sottili da trasmettere. Selene Gandini (Anna) ed Elio D’Alessandro (David) pagano il prezzo di essere gli “attor giovani”, diretti come fossimo a un saggio amatoriale tra Shakespeare e Marivaux.
In Summer cerchio attorno cui si stringono i personaggi è una storia comune ormai confusa con la fantasia, ricordi misti ad allucinazioni date dalla morte violenta di una coscienza. E la forza di questo gioco sadico starebbe proprio – ancora una volta – nel continuo sostituirsi di realtà effettiva e un incubo livido viziato dai sensi di colpa. Ma sono questi processi eccezionalmente intimi, che non possono essere tradotti in un’azione scenica così esteriore, in cui ogni singolo pensiero sembra aver bisogno di una camminata in proscenio, di un giro attorno al tavolo, di un freeze con lo sguardo perso nel vuoto o di un sussulto di diaframma che precede la voce vibrante. Se proprio non si ha o non si cerca un linguaggio di rottura, sacrificare la confezione (non solo scenografica ma anche scultorea nei confronti delle battute, imprigionate in uno scambio quasi cantato da operetta) in virtù di un maggiore spazio per gli attori gioverebbe alla costruzione di questo ritratto umano.
Il testo di Bond ha scelto di rischiare, tutto sommato con un successo solo parziale, inserendo un programma poetico arduo in una vicenda di per sé datata, se vogliamo anche abusata e dunque difficile da penetrare e rendere presente. Ma è un peccato che il tentativo di Salvo, uno di quelli su cui la Fondazione Campania dei Festival ha investito fondi non sempre facili da giustificare, abbia scelto la via più battuta, più antica, più dissestata. Spacciando per teatro d’interpretazione un teatro dei fossili che annulla ogni criticità.
Sergio Lo Gatto
Visto al Teatro San Ferdinando, Napoli, il 14 giugno 2012
val al programma del Napoli Teatro Festival 2012
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SUMMER
di Edward Bond
Traduzione Salvatore Cabras e Maggie Rose
Regia Daniele Salvo
Con Elio D’Alessandro, Selene Gandini, Melania Giglio, Luca Lazzareschi, Elisabetta Pozzi
Produzione Fondazione Campania dei Festival-Napoli Teatro Festival Italia
In coproduzione con Teatro de Gli Incamminati
un rispetto particolare
non sono d’accordo con questa recensione. io ero alla prima dello spettacolo, e sono rimasta sinceramente molto bene impressionata. sia dalla bravura degli attori, sia dalla pulizia della regia, sia dal fatto che un testo così ostico si seguisse perfettamente e l’attenzione non calasse mai. “teatro di fossili” mi sembra un’affermazione completamente fuori luogo. forse che ultimamente (fatta qualche eccezione) non siamo più abituati a vedere spettacoli di qualità, che RISPETTANO il testo e LASCIANO SPAZIO all’attore, anzi, si basano e reggono principalmente perchè ci sono attori con la “a” maiuscola ad interpretarli. magari sono io che ho un’idea obsoleta del teatro, ma sinceramente sono anche stufa di spendere soldi per vedere spettacoli che rasentano l’amatoriale e sistematicamente vengono incensati. in summer ci sono dei professionisti VERI, c’è un’idea registica, che però non giudica e lascia libero lo spettatore di leggerlo a suo modo. credo che la fondazione campania dei festival abbia fatto bene a investire su Salvo, e anzi mi auguro che venga sempre più investito su registi giovani di questo livello.