Bello farsi in salita via di Montecalvario ai Quartieri Spagnoli e, tra un banchetto di frutta, un bar con le tazzine tenute bollenti in contenitori di alluminio e un motorino che sfreccia battendo sul clacson, cominciare a incrociare quella densa folla di volti e passi che in mano stringe i biglietti e le brochure del Napoli Teatro Festival. A questa prima di Los hijos se han dormido dell’argentino Daniel Veronese è folto anche il pubblico di stranieri, per lo più stampa e operatori.
A loro è dedicato l’annuncio tradotto sia in inglese che in francese, in questa sala piccola che – tanto vicini stanno palco e platea – non resta mai davvero al buio. I volti degli spettatori resteranno illuminati, le piccole risate si potranno anche vedere, oltre che sentire, di fronte a questa versione de Il gabbiano di Cechov che Veronese spiega su una grande frontalità e tenendo al massimo il piazzato di luci.
Irina, attrice navigata ed egocentrica, si reca in campagna a far visita al figlio Kostja, inquieto aspirante scrittore diviso tra una forte depressione indotta dalla mancata stima della madre e l’amore per la giovane Nina, che vorrebbe fuggire a Mosca per dedicarsi anch’ella al teatro. Finirà nelle braccia del compagno di Irina, il celebre e malinconico scrittore Trigorin, altra nemesi per il talento di Kostja. Veronese sceglie di mettere la regia al servizio del testo, senza tuttavia annullarla. Sottile è il gioco che lo porta a liberarsi di ogni orpello scenografico (pochi oggetti tutto sommato naturalistici e abiti semplici ma non d’epoca) e di ogni piaggeria visiva in funzione però di una grande attenzione a certi nodi chiave della drammaturgia. Battute precise in cui lo scrittore russo spiega l’essenza del teatro, della scrittura e ancor di più di quella fragilità disarmante che è solo degli esseri umani presi nel momento esatto in cui realizzano di essere irrimediabilmente soli.
Gli attori sciolgono alla perfezione questo adattamento in un lavoro corale eccezionalmente fluido in cui i personaggi di contorno fanno da ambiente vivo ai protagonisti, segnano il passare del tempo, calibrano il peso di questo mondo che è «reale ma anche fantastico». Raffinato rimando visivo sono le pareti della stanza, dipinte con grande realismo ma che lasciano intravedere contorni consumati e il loro essere cave, teatrali, volutamente finte. L’ironia di Cechov ritrova qui tutta la propria forza tragicomica, sposandosi perfettamente con quel ritmo tutto porteño che c’è anche in Ricardo Bartís, una malinconia necessaria in cui non si sorride mai per davvero. E chissà mai se davvero noi possiamo capirla.
All’uscita, un piccolo e agguerrito staff di reporter con camera e fari portatili si fa strada tra il grumo di spettatori nel minuscolo foyer del Nuovo Teatro Nuovo e tu ti fermi qualche minuto in strada, a commentare con un amico napoletano come tutto sommato questo festival stia facendo il giusto. Lavora con Antonio Latella, lui, sempre rimbalza di città in città, salta su treni e aerei tra Modena, Roma, Milano e la Siberia e di festival ne vede. Ma la sua casa è qui. E le polemiche e le dubbie gestioni di queste ultime due edizioni del NTFI hanno perplesso anche lui. Ma vi trovate d’accordo su come il programma di quest’anno stia se non altro mostrando una coerenza che non risponde solo alla legge del più forte e del più ricco, che rischia di ammassare caoticamente insieme una lista di titoli altisonanti perché semplicemente può farlo. Sembra che una lente curatoriale ben settata riesca almeno in parte a giustificare l’importanza di un evento che negli anni era andato perdendo il contatto con la missione di ricerca sul territorio che di un festival dovrebbe essere invece urgenza prima.
Si è detto altrove su queste pagine e su altre di come una tale abbondanza di vetrine possa giovare all’Italia del teatro solo a patto che tra esse si consolidi una rete concreta, che comprenda e preservi la realtà locale occupata dall’evento ma la proietti poi sul contesto nazionale. E per raggiungere questo obiettivo, tra la logica del semplice scambio di spettacoli e quella dell’isolamento miope una via di mezzo esiste.
Come per i festival più piccoli è importante puntare sulle eccellenze locali e sulla loro messa in discussione nell’offerta combinata di contraltari affermati di stabilità nazionale, per quelli più ricchi si impone come missione quella di sprovincializzare questo paese. Per quanto (con qualche eccezione) la tendenza sia ancora quella – tutta italiana – di scansire il teatro in linguaggi che rimandano a etichette che dovrebbero invece essere più fluide, un ciclo come quello proposto dal NTFI sulla drammaturgia argentina segna un’apertura importante.
“L’invasione degli ultraspagnoli”, la chiamava Andrea Porcheddu. E noi ne approfittiamo per qualche giorno, andandocene di certo anche alla piccola maratona su Claudio Tolcachir prevista per venerdì 15. Di cui parleremo volentieri nei prossimi giorni.
Sergio Lo Gatto
val al programma del Napoli Teatro Festival 2012
LOS HIJOS SE HAN DORMIDO
Da Il Gabbiano di Anton Cechov
Adattamento e regia Daniel Veronese
Produzione Sebastian Blutrach (Buenos Aires) con Ligne Directe/Judith Martin (Paris)
In coproduzione con Teatro San Martin-complejo teatral de Buenos Aires, Théâtre de la Bastille (Paris), Festival d’Automne à Paris