Oggi nel nostro paese i trentacinque anni sono noti come la soglia critica superata la quale un artista (o più in generale un professionista del mondo dello spettacolo) smette di essere considerato “giovane” ed è dunque invitato a rinunciare a una serie di privilegi di visibilità che questo sistema zoppicante gli accorda. Zoppicante non solo per questioni economiche, ma proprio sistemiche, piccoli e meno piccoli equivoci strutturali che ancora oggi, in una società teatrale squisitamente liquida, conservano una visione sezionata per contenitori stagni. Claudio Tolcachir ha trentacinque anni. E la sua storia è appena cominciata.
La showcase riservata al teatro argentino sarà stata senza dubbio una delle scelte più interessanti di questa quinta edizione del Napoli Teatro Festival Italia. E ne è la prova, dopo il passaggio unico del Cechov rivisto da Daniel Veronese, proprio una piccola ed eccezionale maratona dedicata all’opera del giovane e grintoso Claudio Tolcachir: Tercer Cuerpo, El viento en un violín e La omision de la familia Coleman.
La saletta del Mercadante Ridotto è raccolta e accogliente. Entrando, passato lo sguardo dagli spalti alla scena, dallo spazio piccolo e ricolmo di vecchi mobili e oggetti, viene voglia, una volta tanto, di sedersi in prima fila. Sono molti i particolari da osservare in quello che a tutti gli effetti sembra rappresentare, in modo più che realistico, uno squallido ufficietto della burocrazia cittadina. Dopo gli annunci trilingue di rito, la luce sulla platea resta accesa, mentre i cinque attori di Tercer Cuerpo guadagnano la scena e, incrociandosi in un dedalo di percorsi brevi e azioni febbrili, si dedicano a riordinare lo spazio che li ospiterà. Sono attori, non personaggi. E come tali mettono ordine in uno spazio immaginario, popolato di oggetti di uso comune eppure appartenente a una qualche strana dimensione parallela. La piccola distorsione causata da questo breve quadro introduttivo viene appuntita da una ulteriore – e più estrema – scelta di stile drammaturgico, che vede tre personaggi separati dagli altri due per tempo e luogo dell’azione. Eppure condividendo lo stesso spazio.
Sandra, Moni e il più vecchio Héctor lavorano insieme nell’ufficio. Tra loro il rapporto è di confidenza eppure lascia tangibile il senso di un’intimità vicendevolmente negata. Manuel e Sofía, che agiscono nello stesso spazio ma con gli altri tre non interagiscono mai, sono una coppia che tenta di salvare un rapporto malato: lei vorrebbe un figlio, lui pare tormentato da una depressione che lo vuole insoddisfatto, disgustato da sé e dagli altri e – sembra – con il cuore altrove.
Le due storie si incontreranno solo nel finale, scoprendo il nervo di cinque solitudini, intrecciate in una rete di bisogni, relazioni e piccole disperazioni. La scrittura di Tolcachir, che qui lavora con lo stesso staff tecnico ma dirigendo un gruppo esterno alla sua usuale compagnia, sorprende per la fluidità del linguaggio e per la forte carica di ironia tragica. C’è una vera e propria arte nel lasciare aperte le battute, nell’imbarazzare il parlato, nel far tremare la voce di questi attori straordinari che dell’ascolto e dell’emozione dell’abitare la scena fanno motore primario. A condurre questo generoso torrente è una sapienza drammaturgica davvero notevole, che conosce alla perfezione e mescola tempi comici e tragici, singhiozzi del contatto umano e ritmi sincopati del vissuto. Il risultato ci conquista del tutto, complici la prossimità e l’intimità dello spazio, in cui si diventa destinatari di sguardi vibranti e testimoni di lacrime genuine. Senza mai dimenticare il gioco teatrale che fa girare la giostra, ché quel primo quadro del riordinare fa il paio con l’ultimo, quello degli applausi: i loro sorrisi e i loro cenni di saluto sono gli stessi.
El viento e La omision li vediamo in coda, con in mezzo due ore scarse di pausa che sono tempo perfetto per contenere una ricerca fugace di pizza tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli. Niente di più consonante, ché i personaggi delle storie raccontate da Tolcachir «abitano queste strade». È lo stesso regista ad affermarlo, in un breve testo di saluto nei programmi di sala intitolato “A casa, a Napoli”: «[…] non esiste un altro popolo che assomigli di più agli argentini». Ne El viento una coppia di ragazze, Lena e Celeste, desidera disperatamente un figlio e lo otterrà costringendo all’atto sessuale Darío, giovane perdigiorno bamboccione appeso alla ossessione di possesso di una madre ricca e iperattiva, disposta a pagare segretamente di tasca propria uno stipendio per il figlio pur di immaginarlo realizzato. La gravidanza di Celeste sarà uno schiaffo di responsabilità per Darío, che insisterà per occuparsi del bambino, trasformando un capriccio in un motivo di maturazione.
La Familia Coleman, invece, vive stipata in un minuscolo appartamento nel quartiere popolare Boedo di Buenos Aires. Meme ha una vecchia madre e quattro figli: i gemelli Gabi e Damián, il ritardato Marito e sua sorella maggiore Verónica, unica a essere rimasta con il padre e ad aver fatto fortuna con un marito ricco. La malattia della nonna li riunirà. Ma solo apparentemente.
Se El viento copre la malinconia con una generosa carezza grottesca e sinceramente divertente, la povertà e la distorsione sociale e umana raccontata ne La omisión, nonostante i molti momenti esilaranti innescati soprattutto dal personaggio di Marito, ci precipita in uno squallore tenero che ci stringe il cuore.
Complice l’impiego del medesimo cast e soprattutto se viste in coda, queste due pièce – ancora una volta sorprendenti per una scrittura ben tagliata, severa e che lascia sempre una finestra aperta su una genuina passione per il racconto – possono essere viste come due pale dello stesso affresco. Straordinariamente eduardiani sono l’impianto drammaturgico e drammatico, il taglio dei personaggi e i ritmi della narrazione. Tornano quelle che sembrano essere le cifre stilistiche di Tolcachir: i diversi ambienti che convivono sulla scena (anche se qui la regia non osa giocare con tempi paralleli come in Tercer Cuerpo) e l’ingresso degli attori che si dispongono in scena a luci di sala accese, frattura crudele tra reale e immaginario che, invece di mettere al sicuro, spiazza completamente.
Dicono che Tolcachir, che a Buenos Aires possiede e gestisce le due piccole sale di un teatro, non sia molto amato dalla critica. Per quanto siano evidenti certe furbizie drammaturgiche che scoprono il fianco al rischio imminente di ripetizione e per quanto convenga considerare l’influenza positiva di un pubblico che qui a Napoli poteva riconoscersi in molti angoli di questo affresco popolare, va rimarcato con quale forza Tolcachir riesca a interrogare il presente, qualità che spesso manca a tanta drammaturgia italiana. Teatrale? Astuto? Qua e là forzato su una curva accattivante? Tutto quello che volete. Ma resta una semplice e grande festa corale in cui anche il pubblico è invitato a una parata di emozioni che passano veloci e veloci ne ne vanno. Come vento attraverso un violino.
Sergio Lo Gatto
visto al Teatro Mercadante, 15 giugno 2012
val al programma del Napoli Teatro Festival 2012
leggi anche Los hijos se han dormido di Daniel Veronese e Summer di Edward Bond
TERCER CUERPO
testo e regia Claudio Tolcachir
con Melisa Hermida, Daniela Pal, José María Marcos, Hernán Grinstein, Magdalena Grondona
scenografia Gonzalo Córdoba Estevez
light designer Omar Possemato
luci Emilio Valenzuela
disegno dello spazio Claudio Tolcachir
produzione Teatrotimbre4 // Jonathan Zak y Maxime Seugé
EL VIENTO EN UN VIOLÍN
testo e regia Claudio Tolcachir
con Inda Lavalle, Paula Rasenberg, Miriam Odorico, Araceli Dvoskin, Lautaro Perotti, Gonzalo Ruiz
scenografia Gonzalo Córdoba Estevez
light designer Omar Possemato
luci Emilio Valenzuela
disegno dello spazio Claudio Tolcachir
produzione Teatrotimbre4 // Jonathan Zak y Maxime Seugé
LA OMISION DE LA FAMILIA COLEMAN
testo e regia Claudio Tolcachir
con Inda Lavalle, Paula Rasenberg, Miriam Odorico, Araceli Dvoskin, Lautaro Perotti, Gonzalo Ruiz, Diego Faturos, Jorge Castaño, Macarena Trigo
light designer Omar Possemato
luci Emilio Valenzuela
produzione Teatrotimbre4 // Jonathan Zak y Maxime Seugé