Primo giorno di Awakenings, Biennale Danza 2012. Sul palco sgombro del Piccolo Arsenale, il De Anima della Compagnia Virgilio Sieni spiega la sua prima assoluta, di fronte a un pubblico stranamente non numeroso, nonostante si tratti della serata di apertura del festival (in scena, due ore prima alle Tese, anche l’Arsenale della Danza di Ismael Ivo con Biblioteca del corpo).
Come al solito il coreografo toscano si dimostra un vulcano di idee sempre pronto a eruttare. Il punto di partenza programmatico per De Anima è Aristotele che, nel primo libro dell’omonima opera, sostiene che l’anima sia il principio del movimento. Anima come causa del movimento e sua scintilla primaria. Da qui parte e qui arriva questa creazione di Sieni, così genuinamente carnale, creaturale ma mai sterilmente filosofico, mettendo in moto una danza di immagini e colori che deve molto a molti immaginari, senza tuttavia restarne schiava. Ci sono gli arlecchini di Picasso, c’è Watteau, ci sono le tonalità del Tiepolo, tutti raccolti nelle note di sala firmate Stefano Tomassini. E anche laddove alcuni riferimenti restano troppo sottili per essere colti, si intuisce che l’immaginario di Sieni è qui un immaginario evocato, una chiamata alle armi emotiva che pesca a piene mani da qualcosa di sepolto nel nostro inconscio di spettatori, ma soprattutto di esseri umani.
Vero è che la poetica del movimento di questo grande coreografo, così prolifica e appassionata, corre il rischio di ripetere certi codici visivi e spaziali anche oltre il semplice segno di stile, scivolando qua e là del “simile a se stesso”. E pure ogni nodo della narrazione per gesti, qui così improntata a un’estetica della fragilità, della fugacità, dell’innocenza, è ammorbidito da una irresistibile vena ironica.
De Anima è quasi uno spettacolo di clown, così centrato sulla rappresentazione del disequilibrio, sull’estetica dell’inadeguatezza, in cui i gesti falliscono il loro scopo, l’entropia cresce e l’affannarsi dei corpi in scena genera un moto di irrinunciabile malinconia. Quattro danzatori e due danzatrici sono arlecchini con la maschera appena tolta, buttata in un angolo dietro le quinte; lottano costantemente con un loro doppio più scaltro e si scambiano un costume nero che copre anche il volto, come l’ombra di Peter Pan che gli fa gli sberleffi. Atteggiamenti, pose, particolari che spariscono perché spazzati via dal movimento fugace e deciso, dal gesto ironico che crea tutto e tutto distrugge.
C’è il sipario di quel “rosa Tiepolo”, ma anche l’ingombrante e basilare tecnologia che muta colore al fondale, che dona, di quadro in quadro, ai corpi e alle loro tonalità una potenza d’accostamento cromatico mai davvero definibile perché (ancora una volta) fugace.
Cogliere, questo sembra essere il verbo chiave in cui la scrittura coreografica di Sieni si declina, una deriva del movimento che è innanzitutto soddisfazione di un bisogno. Non c’è niente di pornografico in questa partitura, tutto è danzato, inseguito e disfatto in punta di piedi, al suono sempre presente di una musica che accompagna fino a un punto le evoluzioni e le lascia poi alla libertà del loro spazio come gettandole al vento, in un misto di poesia e abbandono.
La linea musicale vola tra suite cantate e inserti corali popolari/sperimentali dal sapore misto di Africa e Sardegna.
Dal grande sipario che fa da fondale emergono i danzatori con ritmo discontinuo, sempre rubato, sempre a sorpresa. Il cappello nero di Arlecchino è quasi un feticcio, passa di testa in testa a segnalare uno spirito che non ha pace, che salta di corpo in corpo come la stessa urgenza al danzare. Non vi sono personaggi, ma solo figure, perse in un inseguimento che tuttavia non è mai casuale: quadro dopo quadro alcune sequenze si ripetono, trasmettendo il gusto ludico di una giovinezza che se ne va di corsa; memorie lontane di salotti cinquecenteschi e angoli di circo nomade trovano posto in un vortice di colori, salti e soprattutto volti. I volti, sì, questo Virgilio Sieni ci insegna da anni, che ciascun corpo ha mille espressioni, ma una sola comunica direttamente senza possibilità di perdere l’attenzione conquistata: il volto.
I brevi silenzi tra una musica e l’altra sono calcolati al millimetro per lasciare all’orecchio dello spettatore lo spazio adatto a percepire ogni respiro, qua e là enfatizzato in un affanno aerobico che restituisce del meccanismo il risvolto più umano, quello dei muscoli automatici. Inspirazione, espirazione, contrazione. E però la muscolarità di questa danza si risolve solo laddove all’azione del corpo si unisce l’eloquente espressività del viso.
Allora sì che restiamo ipnotizzati, diveniamo anche noi parte di un gioco che della propria continuità non ammette soluzione alcuna. Ciascun interprete ha un momento di pausa; con passo calmo e misurato dal fondo guadagna il proscenio, fino a sfiorare il bordo del palco con le dita dei piedi. È lì che sta la luce, lì che la vicinanza di un corpo risvegliato ne attiva un altro (quello dello spettatore) altrimenti morto. Mentre i colori del fondale cambiano alle sue spalle, il danzatore ci regala uno sguardo. Non uno sguardo didascalico, ma neppure neutro. Una scintilla di consapevolezza in tutto e per tutto simile agli arlecchini di Picasso: quella leggerezza presente che se ne sta appesa alla considerazione di un’esistenza piccola, sottovoce, a margine; sempre inadatta e fuori posto, costantemente in ritardo sul tempo, mai davvero in armonia. È quell’ansia gentile, quel fremito costante, quel movimento primario che mostra ciò che tutti ci accomuna: l’anima.
Sergio Lo Gatto
DE ANIMA
Regia, coreografia, scene, costumi Virgilio Sieni;
interpretazione e collaborazione alla coreografia Ramona Caia, Giulia Mureddu, Jari Boldrini, Nicola Cisternino, Andrea Rampazzo, Davide Valrosso;
musica J. S. Bach;
luci Davide Cavandoli;
produzione Compagnia Virgilio Sieni, la Biennale di Venezia