C’è un’arte nel taglio dei giardinieri, quell’uso delle cesoie incapace di compiere un atto violento, come un disvelamento di ciò che sta dietro, di ciò che così sfrondato, pulito, si può mostrare alla vista e alla percezione; questo taglio che lambisce sembra quasi una carezza, un vento lieve che scompagina quelle foglie a far intravedere lo spazio celato, ora non più eludibile. È, di fronte agli occhi. Ecco allora come l’atto di tagliare, la tecnica al servizio della visione, diviene d’improvviso e per paradosso il suo contrario: un atto chiarissimo e naturale compiuto con fluida dolcezza. Questa, che è una delle immagini più intense de I giardinieri e le fatine che Virgilio Sieni ha immaginato per il parco del Castello Pasquini, è forse una delle immagini più vitali per dare battesimo all’avvio di questa edizione numero XV di Inequilibrio, festival di teatro e di danza ospitato dalla splendida Castiglioncello: con quella dolcezza e fluidità scivola il gesto di accompagnare una visione, per dischiudere e abitarne insieme ciò che da essa effonde, dietro le loro fronde un altro gesto è nascita di fate bambine, una vita disvela altra vita, il sogno boschivo dalla natura concreta degli umani; là dove la tecnica intacca e penetra la materia è il gesto puro a dirsi segno umano e naturale, verde cedevole si fa forte del tronco marrone, non svanirà il gesto ché l’accenno di tocco quel bosco ha oramai increspato.
Nasceva la vita, proprio mentre qualche chilometro più in là si tentava di mettere in scena la morte. Livorno distesa e assolata negli indugi del suo lungomare, ospitava nel suo Grattacielo il Reality di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini (recensione), lavoro già visto in anteprima a Roma per ZTL_pro e che si articola sfiorando di continuo la minuziosa esistenza di Janina Turek, casalinga di Cracovia che per cinquant’anni ha registrato i fatti della sua vita in 748 quaderni, ignoti a tutti (e di cui quindi nessuno conosceva esistenza), aperti poi dalla riflessione del reportage che ne ha curato Mariusz Szczygiel, dal titolo omonimo. Cadono e riprovano, senza vibrazioni, asciutti, riprovano ancora a morire sulla scena e a far morire Janina, mettere fine alla sequenza di fatti con l’ultimo e definitivo, finché non è chiaro che in scena si può solo essere già morti. C’è un’idea affondata nell’attraversamento di tale esperienza, a mio modo di vedere, che riguarda espressamente il teatro: esso è ricostruzione dei “fatti”, tecnicamente, ma ne è contemporaneamente ri-creazione, così che il loro compito è svolto pienamente proprio nel momento in cui l’immagine descritta, ricreata, diviene portatrice dell’azione vissuta, rimasta intrappolata in un ricordo inesplicato, rigido nella sua asettica resistenza al divenire. Gli stessi oggetti della scena sono infatti elementi da far vivere (o rivivere) attraverso l’azione, che nella memoria altrui affonda; ecco allora che quella immagine è nuovo ricordo e insieme atto della dimenticanza, sconfiggere il ricordo e tenerlo a bada nella casella che la stessa Janina ha preposto alla sua vita disabitata. Ma la minuzia della vita annotata basta a dirla carpita, afferrata, presa in sé? Tra gli appunti di Janina, uno che dirà meglio di ogni altro, con esclusiva precisione, il tutto tramite la parte, dimenticando ogni ricordo che non sia quello: ecco chiaro che la luce dei fatti passa, pertanto, per le nostre zone d’ombra.
La pulizia di Sieni s’è poi riversata nel Ballo del qua di Abbondanza/Bertoni e i loro bambini danzatori, straordinariamente tecnici e forse un po’ condotti ad azioni sceniche poco inclini alla loro età, in un uso della pulizia certo votato alla precisione ma povero di stimoli drammaturgici in grado di sopportare una durata simile. Ma poco prima, ancora nel bosco, d’un tratto l’evento che s’attende a dire il tutto da una parte, quello da cui si inizia a scrivere gli articoli, quello che Janina Turek avrebbe annotato comunque tra gli altri, nei suoi quaderni dei fatti: tra gli alberi, una cicala e una civetta cantavano assieme, si passavano il cambio il giorno e la notte, proprio come fanno per gli uomini, per la loro naturale evoluzione, la vita e la morte. Tutto muore, nell’atto stesso in cui qualcosa rinasce.
Simone Nebbia