Tu fai fotografie?, No, cioè… Beh hai una fotocamera in mano… Allora sì, ecco, la porto, poi ogni tanto scatto, quando me la sento, quando c’è qualcosa, Sai allora dovresti venire in questo festival, inizia oggi, ci sono un sacco di spettacoli nei cortili interni, nei lotti della Garbatella, sai è strano vedere il teatro lì, si crea una relazione… Mi ricordo di quella volta che vedevo un tipo andare e venire da dietro la tendina di casa sua, attratto e respinto, forse all’inizio voleva arrabbiarsi per il rumore chi lo sa, ma qualcosa l’ha catturato e ha cambiato umore… o quell’altra volta che uno tornava a casa sua con la pila delle pizze dentro il cartone, mi ricordò che si fermò e rimase a guardare lo spettacolo di quel giorno, immobile di fronte al portone, con le chiavi in mano e le pizze che si stavano pian piano freddando e diventando di gomma, immangiabili, ma non gliene importava, lui, si stava nutrendo di altro… Con queste parole s’è aperto, il primo giorno di Teatri di Vetro, il festival in cui invitare gli sguardi a farsi tramite di relazione, testimoni di meraviglia e piccoli miracoli di quando il teatro piove sulla città; sono questi gli occhi che ti porti in giro, quando inizia un festival “innesto”, quando così strambo è per una metropoli avere un tale tentativo di fare comunità: se i quartieri di Roma sono di passaggio, questa del teatro a farsi paese è un valoroso atto di resistenza.
Assalto ai limiti, è il lancio-proclama di questa stagione. I limiti sono quelli imposti dalle politiche culturali, dall’insipienza di amministratori assenti, di cui ormai tutto sappiamo e ci stupirebbe, una sera, incontrarli a teatro (questo è determinante: ci si incontravano Giulia Rodano e Cecilia D’Elia, una volta Regione e ancora Provincia, l’attuale alla Regione Fabiana Santini credo neanche esista e non ho mai avuto l’onore di incontrare in platea Dino Gasperini, Comune, sostituto di quel Croppi che avremmo addirittura rimpianto): sarà segno che il teatro si decide lontano dal teatro? Mi sa tanto, ma vabbé, noi di andarci non smettiamo, così come non smettiamo di segnalarli, quei limiti che si vogliono assaltare; il primo è quello che Vincenzo Schino, regista di Opera, si trova ad affrontare per il suo Sonno, spettacolo d’apertura (che guarda un po’, proprio qui in chiusura aveva portato il suo Limite, due edizioni fa): è la terza volta che lo vedo, questo spettacolo, ma mi rendo conto che questa quasi non posso contarla, tanto inadatto il palco del Palladium che mangia via mezza scena, dove accadono cose invisibili a chi non sia in galleria. Questo problema è sintomo di un’emergenza spaziale per il teatro contemporaneo, bisognoso di punti di osservazione che troppo spesso sono impossibili e che meriterebbe riflessione. L’intensità del segno stilistico di Schino è ormai un dato acquisito per chi frequenti la scena nazionale, il suo senso della complessità è di profondo equilibrio e sviluppa immagini di tinte e luci vitalissime, possenti, che in questo caso però insisto a non saper inserire in un disegno continuamente sfuggente. Se ne parla, di fuori, molto in fretta perché inizia qualcos’altro in giro, con altri colleghi però facciamo tardi, proprio non si può evitare di parlarne e di rintracciare segni, affilare percezioni, cercare negli occhi degli altri uno sguardo che ci riconduca al nostro, da cui trarre beneficio e pace della visione. Ma si corre, al lotto 13 sta per cominciare l’installazione audiovisiva di Falancia&Gulino, Pax Domestica. E lì si rinnova questa opportunità di vedersi guardare il teatro: oggetti recuperati alle discariche si fanno strumenti di creazione, proiettata sulla facciata esterna di una palazzina, residui si rinnovano di senso, la musica è alta e le luci sono come fuochi d’artificio, è allora che il riflesso rimpalla dentro un salotto illuminato già da una fioca TV: bello che disturbi una visione con altra, diversissima, visione.
Al 32 toccherà ai ragazzi di inQuanto teatro con Monstrum, il secondo frammento (di tre) di un lavoro che debutterà finito tra pochi mesi al festival Inequilibrio di Castiglioncello e avrà come titolo AD2012. Sarebbe la prima volta in vita mia che vedo cominciare uno spettacolo in anticipo, e infatti non lo vedo, perdo l’inizio e per fortuna, un po’ in anticipo, sono io. Alle 22.25 è già iniziato (22.30, da programma), lo spazio scenico in cortile è sistemato sul fondo e troppo lontani siamo noi, mi avvicino con qualche temerario, cerchiamo di guadagnare metri e diottrie, quattro gli attori (tre più un regista interno, a dire il vero) e un lavoro interessante che gioca con la storia mettendo in luce i meccanismi del linguaggio e del suo significato, svelandone la doppiezza scenicamente dosata con arguzia e ironia. Di fianco due ragazze sedute in terra, vicino a me, si scambiano parole sullo spettacolo appena terminato, io non le sto ascoltando ed è strano, in genere mi curo di ogni frase strappata a bocche altrui perché siano battiti di questo cuore pulsante teatro, poi ci penso meglio e mi ricordo della ragazza del pomeriggio, quella con la macchina fotografica che poi non l’ho vista ma ci verrà: le avevo detto che qui era da portarci gli occhi in fondo, e con le orecchie, evidentemente, non si scattano fotografie.
Simone Nebbia
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