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The History Boys. La civiltà dell’essere e la civiltà del fare

foto di Lara Peviani

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La sala del Teatro India è quasi piena, ma qualche posto vuoto rimane. Non è il tutto esaurito. Eppure otto sedie sono state aggiunte. Quattro per ciascun lato. Direttamente sul palco. Ora otto spettatori siedono in mezzo a quello spazio che, visto da vicino, passandoci accanto senza più l’effetto a scatola che la platea gli garantiva, sembra immenso, squadernato, espanso. Abitano la stessa vertigine in cui si muovono gli attori, hanno da gestire tutt’altra prossimità, sono costretti a ruotare sulle sedie per non perdersi i passaggi. Ma da questo posto nel mezzo esatto della gradinata fanno parte del quadro, ne diventano particolari muti, questa che è la visuale convenzionale assegna loro privilegi da scenografia periferica. Al punto che dopo poco non ci si fa più caso. Eppure sono loro gli elementi fondamentali. Fratturano d’un colpo la frontalità del punto di vista. Ed è di questo che parla The History Boys.

Testo scritto da Alan Bennett nel 2004 e offertosi presto all’albo d’oro delle più prestigiose giurie, non esclusa quella dei nostri Premi Ubu, che ha valutato questo primo allestimento italiano firmato Bruni-De Capitani come il Miglior Spettacolo dell’anno 2011 (relativo dunque alla passata stagione). Nell’Inghilterra degli anni Ottanta una classe di neodiplomati torna a scuola per preparare l’esame d’ammissione a Oxbridge (vezzeggiativo per le prestigiose università di Oxford e Cambridge). Al corso di Cultura Generale tenuto dall’eccentrico professore sessantenne Hector (istrionico e imponente come sempre Elio De Capitani) il preside Felix (un disneyano e irresistibile Gabriele Calindri) aggiunge un corso di Storia del giovane e combattivo Irwin (Marco Cacciola, vincitore nella lotta con un personaggio molto interiore pieno di responsabilità).
I due metodi apparentemente diversi si riveleranno puntati a un orizzonte comune, la lotta all’apatia culturale, in senso romantico e malinconico per uno, in forma d’esorcismo verso il galoppante conformismo dell’opinione comune e del benpensare per l’altro. Otto giovani attori tutti sotto i 30 si sono meritati l’Ubu a questa categoria dedicato per un lavoro di squadra davvero grintoso, così come magistrale (e altrettanto premiata) ha saputo essere Ida Marinelli per la sua Miss Lintott “non protagonista”, unica parte femminile esplicita − aggiunta a quella latente nel gruppo degli studenti.
È davvero difficile quantificare i meriti di questo grande spettacolo. Sui binari celestialmente oliati della scrittura di Bennett (abilmente tradotta da Salvatore Cabras e Maggie Rose) viaggia a grande velocità un’ironia consapevole e scaltra, che come sempre si permette prodezze linguistiche e soprattutto semantiche davvero sorprendenti per destrezza e acume, andando a giocare (nel senso più letterale del termine) a colpi di citazioni con temi fondanti come l’educazione, l’insegnamento, la deriva di una società sorretta da «pilastri di cui non sa che farsene», l’ambizione dell’uomo come animale sociale sempre sul punto di lasciar da parte l’anima selvaggia e acciambellarsi al caldo di una poltrona di sicurezze borghesi. O semplicemente umane. E se a far da tenace metallo conduttore sembrano essere sessualità, omosessualità e costume, presto ci si accorge che anche queste non sono che maschere e che la parola chiave è nella parola del titolo: history. L’edizione Adelphi del testo (2012) ne offre la discutibile traduzione de Gli studenti di storia, che appiattisce il senso multiplo di un intero prisma di riferimenti.

foto di Lara Peviani

Mentre la History (lasciata in originale in questa versione) qui non è solo materia di insegnamento ma soggetto d’analisi, lente. Come in tutti i grandi testi (e una volta di più saremo costretti a denunciare la straordinaria potenza di quelli britannici) è un’intuizione a guidare tutto. Il fondamentale paradosso letterario, secondo cui l’idea perfetta è quella che si lascia scartare senza problemi facendo posto a una migliore, si manifesta nell’opportunità squisitamente privata lasciata in dono a ogni spettatore: ricostruire tutti i possibili modi in cui un assunto unico dà forma alle derive di un discorso. Come in un gioco. O come in un’accuratissima analisi scientifica. E le due attività non sono mai state così vicine. “La vita umana con i suoi imprevisti è la prova che la storia si costruisce declinata al congiuntivo”, sembra suggerirci questo spettacolo. Con ritmo superbo, la trama un po’ malinconica prende forma organica sullo scheletro scenico che è ora classe, ora ufficio del preside, ora spogliatoio, ora angolo in cui una febbrile pubertà coltiva l’ego, grazie all’estro coraggiosamente elisabettiano del Teatro dell’Elfo, che non ha bisogno che di attori e di spazio sufficiente per farli creare.

Allora, come il linguaggio vola attraversando flashback, a parte, esplosivi momenti di musical e un irresistibile divertimento, così quell’assunto, quell’intuizione, quell’urgenza prende il volo di un messaggio ulteriore: a stabilizzare il bilico di quel modo verbale è il punto di vista. Irwin insegna che per la nuova storiografia (che è innanzitutto delirio epistemologico e masturbazione possibilista) la verità non è che una delle tante varianti; tutto sta a saperla isolare e, di conseguenza, analizzare. E forse anche giustificare.
Gli otto spettatori seduti in platea fanno parte del quadro fino al momento in cui, con ostentata cerimonia, gli attori si voltano a raccogliere anche i loro applausi. Siamo nella società liquida, giusto? In cui non si capisce più chi stia guardando chi. Quando mi alzo, applaudendo, scopro che cos’era a darmi fastidio sotto il sedere. Un volantino del Teatro di Roma (Teatro specchio dell’uomo) su cui sono stato seduto per due ore e mezza. Sull’arancione biancheggia una sola parola. Trionfo.

Sergio Lo Gatto

in scena al Teatro India di Roma [cartellone] fino al 13 maggio 2012

THE HISTORY BOYS
di Alan Bennett
traduzione di Salvatore Cabras e Maggie Rose
regia Ferdinando Bruni e Elio De Capitani
con Elio De Capitani, Ida Marinelli, Gabriele Calindri Marco Cacciola, Giuseppe Amato, Marco Bonadei, Angelo Di Genio, Loris Fabiani Andrea Germani, Andrea Macchi, Alessandro Rugnone, Vincenzo Zampa
luci Nando Frigerio
produzione Teatridithalia

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

1 COMMENT

  1. Sì, anche a me questo spettacolo ha dimostrato, quasi con imbarazzo, quanto la drammaturgia britannica sia avanti rispetto alla nostra. Lì dove noi continuiamo a pencolare fra la tentazione dell’ironia e la cautela di non semplificare troppo, non affermare, non prevaricare lo spettatore col punto di vista autoriale, questi inglesi scrivono un teatro che riparte dal gusto e dall’amore del raccontare una storia umana. E tutti quelli che per noi sono insolubili problemi poetico-filosofici, per loro diventano la screziatura disillusa di vicende spesso energiche, in qualche modo positive, anche quando sono tragiche e quando non sono capaci di trovare una verità. E di solito non sono un forsennato xenofilo, eh…Tra l’altro in certo humour di questo spettacolo ci ho colto addirittura qualcosa di Scrubs!!!

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