Le vie consolari di Roma arrivano molto fuori città, alcune addirittura in altre nazioni di là dal mare, ma se le pensi tratto per tratto sono arterie di quartiere, dove camminare e incontrare persone. Perché Atlante a volte, per viaggiare, soltanto passeggia. È così che un pomeriggio fra questi, trovandomi lungo una periferia che si sta sforzando di avvicinarsi al centro, m’imbatto in un gruppo di giovani che sta appendendo una stoffa rossa e nera, in alto sopra un muricciolo sbrecciato: Canzone Clandestina, reca la scritta, me ne accorgo sbirciando distrattamente, ma appena in tempo perché una ragazza dai capelli neri mi raggiunga dicendo: «Ci vieni a trovare?». Io prendo tempo, chiedo: «E che cos’è?», lei risponde sorridendo: «Siamo in tanti sul palco e facciamo teatro con tante canzoni brechtiane; all’aggettivo ho un colpo, scruto la ragazza, cerco di capire cosa l’abbia spinta all’uso di questo aggettivo, in strada, con uno che non conosce, come fosse cosa di ogni giorno e che l’interlocutore abbia la minima coscienza di cosa stia a significare: brechtiano».
Passano i giorni, un paio, e nel frattempo mi rimbalza in testa questa Canzone Clandestina, questo invito disinteressato, questo spirito avventuriero dell’esperienza. Così arriva il sabato sera e decido per andare, solo, alla scoperta. Torno così di fronte a quel parco, dove prima c’era una fabbrica di un’industria tessile che nel nome è rimasta, come sempre in questi casi, assieme al prefisso “ex”: Ex Snia Viscosa, questo centro sociale che da anni anima in un capannone le attività della zona e resiste al tempo con coriaceo temperamento. Sottoscrizione all’entrata, pago, inizio così la mia avventura da clandestino fra i clandestini, qui dove nessuno conosce questo mestiere di critico e l’anonimato teatrale non mi dispiace affatto. Mi siedo tra la folla di ogni età ed etnia, inizia lo spettacolo. La prima impressione è ambientale: la sala è piena, ci saranno duecento persone, composte e in direzione del palco, dove un uomo inizia a parlare dicendo tutti i suoi ascoltatori «Poveri, soli…» ma di colpo nessuno lo è più, perché in alto sull’impalcatura laterale salgono in 25 e iniziano a cantare una sorta di prologo, sono vestiti di rosso e di nero e pian piano iniziano a scendere verso il palco. Giunti in scena li vedo bene, tutti quanti, ragazzi e ragazze i cui colori sono netti ma indossati tutti insieme paiono mescolati e indistinti, ognuno vestito con gli stessi due colori ma con abiti diversi, come se una volta indossati ognuno di loro vi portasse dentro un’interpretazione, una versione specifica ed esclusiva di un ideale, il proprio, così tradotto. Dietro di loro un drappo rosso, cadente e smorto, appeso a un fondale nero che invece se ne sta eretto alle spalle di tutti.
Iniziano subito a imporre un ritmo vitale, contagiano la platea di canzoni fresche e di energia, suonate dal vivo da due chitarristi; ci sono tre palchi: uno centrale nel mezzo e due laterali in cui separare i soli teatrali dal coro, pur amalgamandoli in esso con sapiente maestria. Già, la maestria: a usarla è Michelangelo Ricci, cantautore, qui autore e regista, ma soprattutto conduttore del Laboratorio Permanente e gratuito che qui si tiene e che ha dato vita allo spettacolo. La sua mano compone tra musica e parole un disegno collettivo che si misura con temi forti. Il denaro, il capitalismo, la povertà, i sentimenti, ma ognuno con puntiglio e generosità, al punto da poter dare come unico tema a racchiuderli tutti: l’umanità, in entrambi i significati che questo termine può avere.
Canzoni civili, scene di maschera, testi di denuncia a tutti i fascismi di oggi, riveduti ma non corretti: conclude esplodendo questo musical sociale, con gli attori ad applaudire forte quanto il pubblico in platea. Mi alzo, godo ancora un po’ dell’anonimato, Ricci mi dice che il laboratorio è aperto tutto l’anno per tutti, questa data poi hanno dovuto farla per quelli che hanno dovuto mandare via la volta precedente. Loro, più me, a questo punto. Vago tra la folla che intanto si è riunita in gruppi attorno a birre vendute a poco prezzo e sigarette rallentate dai discorsi, mi avvicino al bancone anch’io, di lato, ma nel momento in cui un uomo ingrigito ai capelli sta dicendo alla ragazza lì dietro, e a questo punto anche a me, «Io me pare de conosce tutti qua dentro! Vengo qua e manco i sordi ciavevo, che m’erano cascati – se ‘o sapesse mi nipote – poi ho trovato ‘na ragazza là che me dice te presto 5 euro…oh! Stavo secco che figura… me ‘i so presi…», brinda col bicchiere che ci ha acquistato, con una minima parte di quella somma.
Sorrido alla ragazza anche io, poi mi allontana una piccola ritrosia: io no, non conosco nessuno invece, non è qui che mi pare di conoscere tutti e che tutti conoscano me, ma è qui che dovrei, stasera, qui dove forse non c’è quell’arte che mi vado e ci andiamo a cercare: arte di circuito che è forse più arte di quella solitaria e dove i nostri occhi non arrivano? Io e noi che ci piace riconoscerci l’uno nell’altro, non costituiamo forse un sistema che, includendo, inevitabilmente esclude? Sono costretto ad andarmene, incupito, mentre “povero e solo” quanto si diceva all’inizio dello spettacolo, senza che si tratti di economia o di successo, mi accorgo che qui non è proprio nessuno. Tranne me.
Simone Nebbia