Affidare al teatro la responsabilità di farsi mezzo utile al racconto di un immaginario complesso come quello distopico di 1984 è sinonimo di coraggio, soprattutto se si è costretti per idee o necessità a fare di quel mezzo un uso frugale. Francesco Giuffrè ci prova al Teatro Argot, dove fino al 20 maggio rimarrà in scena con La favola di W. S. Le iniziali del titolo stanno per Winston Smith il protagonista del romanzo scritto nel ’48 da George Orwell, la favola – ché possiamo intenderla tale solo se ne ribaltiamo la consuetudine conservandone l’etimologia – è quella di di un uomo che vuole opporsi al totalitarismo.
Un grande occhio luminoso sovrasta la scena, sul fondale, in incipit ed epilogo dello spettacolo scorrono immagini in bianco e nero, sono i ricordi perduti, quelli che Winston (Giovanni Carta) cerca ogni giorno di proteggere, lottando contro l’intrusione del partito, contro se stesso, per non essere accusato del male supremo: lo psicoreato. Giuffrè fa tutto con quattro attori, interessante la costruzione di un personaggio extra che racchiude in sé l’efficacia e la comunicatività dell’artista di strada, un po’ banditore, un po’ marionettista, ed è proprio in quest’ultima veste che si palesa la metafora del potere nell’interpretazione da manuale di Camillo Grassi. Prima di entrare nella cella di Winston – e incarnare così uno dei volti del Grande Fratello – Grassi si strucca davanti al suo teatrino monoposto, lava via dalla faccia la maschera fintamente ironica per posarla sul volto dei condannati; su di loro la maschera è malleabile e prende forma sotto le sue mani. Nella riduzione teatrale di Giuffrè – che da anni si dedica con costanza alla pratica del romanzo a teatro (colpì il suo Delitto e castigo) – quest’opera di elusione e smascheramento del potere è tra gli spunti più evidenti, non ne sono esenti neanche i due innamorati, Winston e Giulia. Ma lo spettacolo gira soprattutto attorno a un concetto – e qui sta lo spunto del regista nel saper far emergere un tema dall’intreccio orwelliano senza perdersi in formule estetizzanti o ancor peggio in una teatralizzazione onnivora rispetto al romanzo – , la perdita dei ricordi. Non è forse proprio questa una delle minacce dell’era 2.0? Affidare i nostri ricordi a server e social network, moltiplicare la nostra immagine senza soffermarci minimamente sull’impatto che essa potrà avere sui nostri ricordi non equivale forse a voler delegare la funzione della nostra memoria e perdere perciò qualsiasi capacità di racconto?
Lo spettacolo soffre tuttavia della mancanza di un certo ritmo che forse deve riuscire ancora a trovare causa anche i numerosi cambi di scena, ma soprattutto di una recitazione talvolta troppo affettata, che nel caso di Winston rischia di tratteggiare un personaggio monodimensionale e scontato, quando invece dovrebbe essere portatore di un’umana complessità. Quella maschera modellata dal saltimbanco/carceriere, metafora appunto di un potere politico che si mescola tra le persone per nascondere le proprie macchinazioni e trasformare i paradigmi sociali (vedi l’istituzione della neo-lingua, l’annullamento dei sentimenti, la guerra perenne) poteva essere anche un punto di partenza per ragionare intorno a una forma di espressione dell’attore più complessa e attuale che avrebbe permesso all’opera di colpire lo spettatore lì dove è più sguarnito, per renderlo così attivo e partecipe rispetto a quel tradimento finale di cui Winston immancabilmente si macchia.
Andrea Pocosgnich
in scena fino al 20 maggio 2012
Teatro Argot [cartellone]
Roma
Effe.Gi.Di
in collaborazione con Argostudio
LA FAVOLA DI W.S.
regia Francesco Giuffré
con Giovanni Carta, Camillo Grassi, Massimiliano Mecca, Marta Nuti