La sua ultima regia, Yo, el heredero, versione in castigliano della commedia Io, l’erede di Eduardo De Filippo, ha inaugurato lo scorso 16 settembre la stagione del Teatro Marìa Guerrero di Madrid, palcoscenico del Centro Dramàtico Nacional. Francesco Saponaro, classe 1970, regista tra i più interessanti della nostra ultima generazione, fondatore della Compagnia Rossotiziano, membro del comitato artistico del Teatro Stabile di Napoli con Valeria Parrella e Lorenzo Pavolini durante le direzioni di Roberta Carlotto e Andrea De Rosa, giunge a questa messinscena grazie alla sinergia tra i Teatri Uniti ed il produttore e scenografo italo-spagnolo Andrea D’Odorico, dopo aver vinto nel 2009 il premio ETI come miglior spettacolo d’innovazione con Chiòve, adattamento in dialetto napoletano di Enrico Ianniello da Plou en Barcelona di Pau Mirò, di cui ha poi diretto in Spagna anche la fortunata versione originale Llueve en Barcelona, con un cast interamente spagnolo. Questa conversazione nasce dal desiderio di raccontare la genesi di Yo, el heredero e con essa le ragioni di una emblematica “migrazione” artistica e culturale, segno di una cronica refrattarietà del sistema teatrale italiano al ricambio generazionale della nostra scena.
D. Con il progetto Vespertelli per il Teatro Stabile di Napoli, attraverso la Russia zarista affrontavi la corruzione dilagante nel nostro paese, con Chiòve attraverso il degrado del Raval di Barcellona adombravi la desolazione metropolitana di Napoli, con il dittico cechoviano de L’orso e una domanda di matrimonio tradotto per l’occasione da Fausto Malcovati, ritraevi una società asfittica e stanca. Quale rispecchiamento simbolico è possibile vedere nella società di Yo, el heredero?
R. Quello che mi interessava e mi interessa è investigare sulla piccola e media borghesia e sui suoi conflitti. Nonostante Eduardo abbia scritto Io, l’erede settant’anni fa, è un testo che suona di grandissima contemporaneità. Credo che noi italiani siamo figli, dopo la guerra, di generazioni di uomini che hanno lavorato tanto per risollevarsi dalle macerie ma poi si sono fermati, hanno preferito un condizionamento e una resa ad una reale emancipazione. Gli ultimi trent’anni della nostra storia dimostrano che siamo un paese particolarmente arrendevole, in cui la borghesia è una borghesia molle, flaccida, profondamente conservatrice. Tutti questi spettacoli sono legati da un minimo comun denominatore e credo che con questa opera di Eduardo il mio viaggio in questo territorio sia arrivato a toccare un estremo. Tutto sommato credo siano collegati da uno stesso tema di fondo, da un bisogno, una necessità di cercare quello che per me è un orizzonte di tragicomica desolazione.
D. Il profetismo di Eduardo viene anche potenziato dall’idea di spostare in avanti nel tempo l’ambientazione di Yo, el heredero.
R. La commedia viene scritta nel 1942, poi rimaneggiata sul finire degli anni ’60. Io ho scelto di lavorare sulla prima edizione testuale, spostando però l’azione quasi agli albori degli anni ’50. Mi interessava raccontare questa borghesia che, nonostante la guerra, rimane fedele ai propri principi di reazionario conservatorismo, di ipocrisia della carità cristiana. Resta incolume, nonostante il fascismo, le macerie e gli orrori della guerra. Mi interessa molto investigare questa classe sociale senza orizzonti, creare una fonte speculare perché si possa guardarla con sarcasmo e, ridendone, riflettere sulla necessità di un vero cambiamento. Penso che, senza essere didascalicamente politici, fare teatro in questo modo sia già un’azione politica. Del resto il teatro d’arte, il teatro d’autore, di cui si sente sempre più la mancanza in Italia, è sempre un teatro politico, non può che essere tale.
D. In effetti, Eduardo ha più volte confessato di aver sempre fatto un teatro politico.
R. In quasi tutti i suoi testi Eduardo mette la dinamite nelle case della borghesia, la demolisce dall’interno. In questo testo è ancora più chiaro, perché il protagonista è un personaggio estraneo a questa famiglia, che arriva dall’esterno a corrodere la facciata perbenista dei Selciano. Un ospite inatteso che si infila nelle pieghe delle relazioni interpersonali della famiglia, ne smaschera i vizi e le malizie con lo scopo e l’obiettivo di vendicare suo padre e prenderne il posto. Ludovico Ribera è un uomo che non ha più nulla da perdere, bizzarro e sovversivo. Un angelo sterminatore in bilico tra Buñuel e Pasolini, un personaggio poliedrico, che mutua le sue movenze dalle grandi icone della tradizione teatrale, in primis dalla bipolarità sardonica e demoniaca di Pulcinella. L’incontro con il protagonista Ernesto Alterio è stato un incontro magico in questo senso, perché è riuscito ad aderire profondamente a quanto immaginavo.
D. Ludovico smaschera dietro la carità cristiana dei Selciano “quel barbaro desiderio di dominio, di possesso che l’uomo ha verso gli altri uomini”.
R. Mi piace come suona la parola in castigliano, ‘posesiòn’. Qualcosa di molto concreto, fisiologico; possedere qualcuno nella sua anima, renderne schiava la coscienza. Credo che il nostro paese sia tragicamente emblematico, negli ultimi anni, per il modo in cui è riuscito a renderci schiavi nella testa e nell’anima, creando una grande desolazione intellettuale e civile, coperta costantemente dai media con una facciata di perbenismo e di falsi valori, in realtà mostruosi.
D. La sensibilità di Eduardo ai mutamenti storico-sociali si riflette anche nel modo in cui costruiva la sua lingua teatrale molto più in scena che non allo scrittoio.
R. Eduardo è uno dei più grandi drammaturghi della storia del novecento perché scrive sulla propria pelle e sulla carne degli attori. È un vero dramaturg, un attore che opera un intenso processo di scrittura scenica a partire da sé stesso, dalle proprie caratteristiche e attitudini.
D. Per Eduardo il copione non era mai definitivo.
R. Ti rispondo con una frase di Vsevolod Mejerchol’d, uno dei grandi padri della regia del Novecento, che suona più o meno così: “Non mi biasimate se mi contraddico. Questo vuol dire che ho un rapporto dialettico con la vita. Non mi criticate se quello che dicevo oggi non corrisponde a quello che ho detto ieri, perché io sono vivo e quello che faccio è un teatro della vita e del presente”. Credo che Eduardo fosse l’incarnazione di un teatro della vita, che salta senza soluzione di continuità dalla pagina alla scena, in un dialogo costante tra attore, drammaturgo e regista. Credo in una drammaturgia aperta. Il che non vuol dire sovvertirla, tradirla e sovrappormi in modo velleitario ad essa. Il mio compito è analizzare le pieghe del testo e costruire un’architettura in cui l’attore possa scoprire sera per sera, attraverso il contatto costante con il pubblico, quello che deve succedere. Perché deve succedere, non è già successo. Deve essere un fatto! Questa è la posizione con cui mi pongo rispetto al teatro.
D. Con la messinscena di Yo, el heredero hai avuto l’onore di inaugurare la stagione del più istituzionale dei teatri spagnoli, però nel contempo hai dovuto “emigrare”. Hai più appeal in terra iberica o c’è qualcosa che non funziona nel nostro sistema teatrale?
R. Prima di tutto non credo di avere nessun appeal, soprattutto non è l’obiettivo che mi prefiggo come teatrante e come regista. Credo anzi che ci sia un vizio di fondo in tutto il teatro italiano, che è quello di inseguire l’appeal e la moda, realizzando spettacoli sull’onda del sensazionalismo. Rispetto all’esperienza di Yo, el heredero, credo si tratti piuttosto di occasioni concrete, originate da relazioni e cortocircuiti tra Napoli e Madrid, fino alla richiesta del produttore Andrea D’Odorico, che si era appassionato a questo testo, di cercare attraverso i contatti con Angelo Curti di Teatri Uniti, un regista napoletano che mettesse in scena Eduardo con attori spagnoli dandogli un’impronta ed una lettura napoletane. Di sicuro si tratta di una maggiore attenzione per il lavoro ed il merito. Credo di essere stato chiamato per il valore che finora ho dimostrato nel modo di leggere il teatro e nel tipo di messinscena che ho fatto.
D. Un diverso approccio, quindi.
R. Mi sembra ci sia un approccio più strutturato, attento all’aspetto artigianale di questa professione. Mi piacerebbe essere considerato, prima che un artista, un abile artigiano della scena. Il velleitarismo troppo spesso diffuso in Italia, l’artisticità per l’artisticità, fa perdere di vista quello che questa grande professione ha innanzitutto di altissimo artigianato, prima di essere una eventuale espressione di genialità artistica.
D. Dunque, una “normalità” del sistema teatrale spagnolo.
R. La parola normalità è una parola che in Italia fa molto paura. A noi manca attualmente l’ansia di essere normali, manca in questo momento un livello normale di civiltà da tutti i punti di vista. Questo crea da una parte il degrado, dall’altra l’eccentrico e velleitario sensazionalismo delle cose. Qui, nonostante la crisi, mi sembra ci siano degli standard minimi più garantiti rispetto al nostro paese. In Chiòve c’è una domanda emblematica che pone Lali, la protagonista, al suo fidanzato-pappone: “Sembro normale?” È una frase che fa ridere per come abbiamo deciso di recitarla in scena, ma, in realtà, il suo significato profondo è assolutamente tragico… la dice lunga sul bisogno di sentirsi normali, integrati, di avere delle garanzie minime di sopravvivenza al di là delle fratture classiste… insomma è una battuta, per me, profondamente politica!
D. In un’intervista del 2009, al tempo in cui facevi parte del comitato artistico dello Stabile di Napoli, registravi una grande stagnazione del quadro dirigente italiano, non solo napoletano. Cosa credi sia cambiato da allora?
R. Credo che il quadro sia abbastanza peggiorato. Vedo una classe dirigente di ultrasessantenni che non vuole lasciare spazio, non vuole perdere i suoi privilegi. C’è una generazione di quarantenni altamente preparata ma che non ha sbocco, non trova la possibilità di elaborare un progetto che tenga presente il rapporto con le generazioni precedenti e, in termini artistici, con la tradizione. In realtà invece, per quanto mi riguarda, credo che sia questa la grande sfida: mettere in atto una tradizione vivente. Il grande pericolo italiano è che si salti una generazione, e dunque la possibilità di trasmettere un sapere che quelli della mia generazione hanno appreso da una generazione di enorme valore artistico e professionale che li ha preceduti. È come se da un edificio tu togliessi improvvisamente un piano. I piani superiori si abbattono su quelli sottostanti e l’edificio che fa? Inevitabilmente crolla! La natura dovrebbe sempre insegnarci qualcosa. Costruire dove ci sarebbero dovuti essere gli alberi fa venir giù le montagne e con esse le case.
D. Come valuti nell’attuale quadro di stagnazione l’esperienza nata con l’occupazione del Teatro Valle?
R. Sono profondamente legato al Valle perché la prima uscita pubblica del mio lavoro da regista fu nel 1997 con il gruppo Rossotiziano per il Premio Scenario. Ricordo che quell’anno c’era Toni Servillo nella commissione del Premio, con suo figlio Eduardo molto piccolo in braccio. C’era Mario Martone, che dopo aver assistito alla nostra performance corse a casa a prendere una foto scattata da lui nel deserto dei Saharawi che gli ricordava un’opera di Pino Pascali, l’artista che raccontavamo col nostro lavoro. Ecco, quando parlo di trasmettere un sapere penso ad una storia che si trasmette di generazione in generazione e non ha paura del confronto.
Sono sicuramente favorevole alla lotta, al movimento, soprattutto in questo momento, quindi sto dalla parte degli occupanti, certo. Se esiste però un rischio, è quello del velleitarismo. Il teatro – me ne assumo la responsabilità, anche se deludo qualche aspettativa – non è una festa, non è un party. “L’arte non è una limonata che si beve fresca d’estate, l’arte è una cosa seria”, diceva Dmitrij Shostakovich, un grande compositore di cui ci siamo occupati di recente in una messinscena con Tony Laudadio.
Il teatro è un lavoro. Deve mettere insieme la cura artigianale della pratica quotidiana con un grande pensiero programmatico e organizzativo. Il rischio è che dietro tutto questo possa esserci un’ansia di situazionismo, molto presente nella nuovissima generazione. Credo che questa sana irrequietezza debba trovare una dimensione solida facendo attenzione agli errori commessi in precedenza. Penso che un teatro pubblico, un teatro stabile, non possa essere diretto da un artista, o non soltanto da un artista. Penso invece che gli artisti debbano contribuire a segnalare bisogni e necessità, prospettive e racconti… immaginare un processo creativo congiuntamente alle figure manageriali, cui spetta però il compito di gestire e calibrare economicamente – dal punto di vista organizzativo – i progetti. Gli esordi del Teatro Mercadante erano stati luminosi, purtroppo si sono traditi nel corso del tempo. Porre un regista come unico direttore artistico e organizzativo significa orientare verso una naturale tendenza personalistica. Gli artisti sono voraci e narcisi, si sa! Se un direttore artistico che è anche regista sarà obbligato a non fare i propri lavori, dovrà frustrarsi e vivrà male quell’esperienza. Se non sarà obbligato a rinunciare ai propri lavori, finirà per mettere in scena soprattutto quelli usando un bene della collettività per uno scopo personale e privatistico. Da cittadino mi chiedo: è per questo che la comunità paga le tasse?
D. Non pensi dunque che una direzione artistica plurale possa costituire un antidoto al rischio del personalismo?
R. Non penso a un direzione artistica plurale nei termini di una turnazione stagionale o personale rapida e veloce. Penso a un gruppo di tre o quattro diverse ‘teste pensanti’, diverse espressioni, diversi stili, perché il teatro si fa insieme anche a partire da punti di vista divergenti. Il pensiero unico e l’omologazione sono la morte! E poi, se siamo tutti d’accordo da principio, che gusto c’è?
Il Teatro Stabile di Napoli era stato progettato con un direttore non artista e un comitato di artisti plurale. Sulla carta era dotato di uno statuto e di una regolamentazione che hanno dato uno slancio propulsivo eccezionale nei primi tempi. Il nostro paese ha una straordinaria costituzione, dovremmo provare ad applicarla e non tentare di demolirla ad ogni cambio di governo. In ogni caso penso che la dialettica non possa che arricchire l’arte. Mi piacerebbe confrontarmi con un regista che fa un altro tipo di lavoro, diverso dal mio, con un altro punto di vista estetico e, perché no, con un altro approccio. È da questo scontro dialettico che nasce una possibilità, non dall’omologazione. Se mi confronto con un collega che fa più o meno la mia stessa cosa il dibattito è piuttosto lineare e quindi produce meno scintille. Bisogna avere il coraggio di produrre scintille. D’altra parte penso che un gruppo di lavoro artistico non possa essere isolato e autoreferenziale, lavorando contemporaneamente all’organizzazione, alla programmazione e alla gestione dell’economia. Il teatro è un’attività collettiva, che si fa insieme, ma nel rispetto della distinzione dei ruoli e delle discipline. In teatro si fanno lavori distinti che servono a raggiungere un obiettivo comune. C’è bisogno che si attivi una figura organizzativa, dirigenziale e manageriale. Rifletterei sul grande modello del ‘teatro d’arte per tutti’ di Giorgio Strehler e Paolo Grassi. Non dimenticherei quell’esperienza fondativa e la valuterei, però, in relazione a quelle che sono le esigenze e le necessità del presente.
Gianluca Parisi