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Totem. Il folle incubo di OlivieriRavelli_Teatro

Il mondo funziona a cicli, dicono. Quello che a livello geologico sono le ere, a livello sociale sono le mode. E la moda di questo ultimo periodo, nel nostro teatro, è quella della “nuova drammaturgia”. Noi che su queste pagine non amiamo le virgolette siamo costretti a usarle, perché le troppe chiacchiere attorno a quei due termini (considerati insieme o separatamente) hanno dato un calcio al problema spingendolo talmente lontano da farne perdere le tracce. E questa moda sta già correndo il rischio di passare senza lasciare una traccia forte di ragionamento. E dunque.

Fabio Massimo Franceschelli ha scritto alcuni tra i nuovi testi davvero interessanti di questi ultimi anni. Il suo (e di Claudio Di Loreto) progetto OlivieriRavelli_Teatro ha dato vita, tra gli altri, agli ottimi Terzo Millennio [recensione] e Appunti per un teatro politico [recensione] e al meno riuscito ma coraggiosissimo Penombra del primo mattino [recensione]. Questo Totem, al termine di una settimana al Nuovo Teatro Colosseo, è un atto unico del 2006, in cui compare, in scarne didascalie e un linguaggio diretto e sintetico, la surreale e inquietante parabola di una famiglia, intenta a perdersi in una selvaggia routine del degrado nell’escogitare (e in qualche modo fallire) un’efferata esecuzione. Uomo e donna (nel testo Vecchio e Vecchia), genitori di tre giovani adulti che portano tutti il nome di Joe. Per la regia di Di Loreto questo è un Incubo postmoderno. E il pubblico viene accolto a sogno già iniziato: sul palco, composti in una sorta di tableau vivant, stanno i cinque sovrastati dalla presenza ingombrante di un Cristo in carne ed ossa. Glabro e pulito, volto rilassato e barba linda, senza stimmati né costato sanguinante, se ne sta come addormentato su una croce di legno, pare, appena laccato. Al posto della sigla INRI campeggia un’insegna IKEA. È un agnello sedato apposta in vista del sacrificio, ma anche semplice oggettistica da esposizione. Joe, Joe e Joe devono prepararsi al suo massacro, ché quel Totem deve essere abbattuto. Le armi da usare sono attrezzi rudimentali (chiave inglese, pinza, sega); più che a un’immolazione religiosa il suo martirio sarà simile alla demolizione di un vecchio edificio. Non resta che piazzare le cariche.
Tuttavia le dinamiche malate tra padre (Di Loreto che gattona in un disturbante costume da ape sadomaso, con antenne a molla ed eloquio meccanico) e figli (tre facce di uno stesso prisma di identità non tanto malata quanto assuefatta e confusa) vanifica l’effetto del massacro. Neppure la violenza più fredda è in grado di fare a pezzi una forma mentis borghese, ormai completamente sorda al guizzo vitale. E la vittima sacrificale trova l’occasione di fuggire, non prima di una inaspettata sintesi di pani-e-pesci (da mangiare come un panino con pesce crudo).

La catarsi, espressa in un’esplosione di materialità, con una tempesta di cibo per cani, un pollo spiumato aperto violentemente a metà, schiuma di birra e corse sfrenate vorrebbe forse esprimere una violenza posticcia e apre le porte a una seconda parte, più secca e arida. Come piace a Franceschelli (la struttura ritorna in altre sue opere) lo spettacolo muore e rinasce in un epilogo di quiete. La figura sovraesposta e terribile della madre, maschera di bellezza verde, bigodini e un bebè/pupazzo di pezza da infilzare con un ago, torna severa come l’ombra dei tragici greci. In lei e nel suo (l’unico) accesso di secca violenza si annullano tutte le speranze di riscatto per un cerchio di miopia borghese che è perversione pura.
Questo incubo ha durate dilatate e mette bene a fuoco la melassa in cui s’affloscia l’azione in quello stato dell’incoscienza in cui Freud vedeva l’espressione più libera del desiderio umano. Ed è interessante quell’indugiare sulla dissonanza di comunicazione che arriva dalla semplice omonimia dei tre. La debolezza è forse che, all’espressione del delirio, manca l’esposizione della dinamica che lo crea: in altre parole sarebbe forse più efficace assistere al mutare di un comportamento reale, alla mostra di quella perversione in corde umane, distorte poi dagli specchi di questa sorta di presagio. Se non si offre la materia del contrasto, se non si rivelano in modo plausibile gli elementi che, mescolati, danno forma a una aberrazione, il suo monito perde di forza e c’è il rischio di un più sterile viaggio in un tunnel allucinogeno.
Freud, di nuovo lui, sarebbe forse soddisfatto di questo spettacolo. La completa follia di questa regia (fin troppo presente) di Di Loreto, che  conserva l’intelligenza di non prendersi mai troppo sul serio e anzi di fare il verso beffardo a quella vera messinscena postmoderna à la Jan Fabre, salva in parte l’operazione. Il rischio in agguato è sempre quello di smarrirsi in una vena cerebrale e moralista più forte di qualsiasi trovata assurda. Per quanto non sia il miglior testo di Franceschelli, la forza di questo Totem è e deve rimanere la sua folle nettezza, evitando di lasciar spazio a psicologismi e moralismi. Resta, questa, drammaturgia della visione, non invettiva.

Sergio Lo Gatto

visto al Colosseo Nuovo Teatro
fino al 19 febbraio 2012

TOTEM
di Fabio Massimo Franceschelli
regia Claudio Di Loreto
interpreti Claudio Di Loreto, Silvio Ambrogioni, Angelo Rinna, Diego Cortes, Claudia Matera, Marco Fumarola
assistente alla regia Francesca Guercio
scene e costumi OlivieriRavelli_Teatro
produzione Ass. Cult. Figli di Hamm in collaborazione con Ass. Cult. amnesiA vivacE e Consorzio Ubusettte

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

11 COMMENTS

  1. Ehm, posso far notare che dall’articolo sembrerebbe che la vittima sacrificale fosse il Cristo ikea in croce, che addirittura secondo l’autore dell’articolo riuscirebbe a fuggire… voglio dire, sarà che ho letto anche il testo ma sarà pure che ho visto anch’io lo spettacolo ma mi pareva chiaro che la vittima che pretende di essere sacrificata dai figli è il padre stesso… che chiede di essere fatto a pezzi dai propri figli ma poi non ci pensa nemmeno a cedere il potere… è la madre che sceglie alla fine… poi si può tentare interpretazioni… se scelga il più giovane dei figli perché il più manipolabile e debole, se perché siano – donna e figlio più piccolo, anche un po’ subnormale, si direbbe, come figlio – siano entrambi i più deboli… vabbe’ non mi sbilancio… però insomma mi pare che ci sia un errore abbastanza grosso a livello di lettura, di lettura proprio della trama, non a livello di interpretazione. Altri spunti nel pezzo li ho trovati come sempre molto interessanti quindi questo travisamento grossolano un po’ mi spiace…

  2. Carissimo Daniele,

    ho letto il testo anche io. E nel testo è estremamente chiaro che la vittima sacrificale debba essere il padre, sono d’accordo con te. È vero anche che in questa regia si mette un Cristo in croce (simbolo del sacrificio sommo, almeno per la cultura religiosa che di certo accomuna me, te, Claudio Di Loreto e un buon 99% delle sue platee) in scena fin dalla prima sequenza. Tutte le discussioni tra figli e padre su come uccidere la vittima si svolgono con, sullo sfondo, un riflettore che illumina il Cristo. Insomma, la sensazione che mi trasmette è che – se anche sia (come da testo) il padre a dover essere massacrato – di certo Di Loreto insiste su questa ambiguità.
    Accade poi che tutto sommato il Cristo se ne scenda dalla croce, la lasci vuota per un po’, per poi – in quel momento catartico di cui parlavo – caricarsela in spalla e andarsene. Di nuovo, da messinscena, non da testo.
    Per farla breve, ti dirò che a me non ha mai interessato granché stare a dare interpretazioni della trama che vedo. Soprattutto in uno spettacolo che così tanto punta all’allegoria. Se vai bene a vedere, nel mio pezzo c’è solo l’inquadramento di un macro-tema, quello delle “famiglia degli orrori”, che dall’orrore parte per lì tornare. Ho giusto azzardato che è la forma mentis borghese (consumista e masturbatoria) ad essere presa di mira. Ma più in là non mi interessa andare. Anche perché la “trama” di cui stiamo parlando è comunque sepolta sotto una drammaturgia e soprattutto una regia che grondano assurdità, con quello sberleffo alle messinscene postmoderne che confonde unteriormente le acque aggiungendo un livello di ironia. Trovo che sia meno interessante andare a pescare dinamiche psicologiche, più funzionale rimanere su un piano iconico.
    Grazie, come sempre, di leggerci con questa attenzione.

  3. Sono una donna di mezza età, consentitemi quindi di iniziare il mio intervento con un aneddoto. Una ventina di anni fa durante la presentazione di un romanzo all’Istituto di Studi Romani un docente di Letteratura Italiana tra i più brillanti e “in carriera” della Sapienza fece un dottissimo intervento non privo di affondi critici arditi tesi a stabilire nessi filologici, a cogliere metafore, a stabilire relazioni e parentele stilistiche tra la Roma dello scrittore ospite e quella di Gadda, Pasolini, Moravia… Dopo di lui prese la parola l’autore che esordì dicendo: «Nel mio romanzo non ho messo nulla di tutto ciò che ha detto il professore ma sono contento che lui ce l’abbia trovato». Questo episodio basterebbe da solo a cancellare intere biblioteche di esegesi d’arte. O, per paradosso, a giustificarne una crescita incontrollata! E personalmente cerco di tenerlo presente ogni volta che formulo o ascolto un’opinione su un lavoro creativo. La critica (qualunque critica) non può prescindere dal partèrre umano e culturale del suo autore, che ne determina il punto di vista e l’espressione. E più stratificati, misti, densi e sincretici sono i linguaggi usati dalla forma peculiare del prodotto artistico analizzato, più nella decodifica lo spettatore sarà sollecitato a usare una gamma ampia di strumenti e conoscenze.
    In questo senso la postilla del recensore all’obiezione di aver frainteso la trama mi sembra inopinabile.
    Tuttavia devo ammettere che anche a mio avviso così per come è raccontato nella recensione l’episodio del sacrificio rituale che la famigliola di “Totem” deve compiere si abbia la netta sensazione di un travisamento. Tant’è che, da assistente alla regia, mi sono subito interrogata circa un nostro clamoroso errore nella codifica del messaggio e ho telefonato a Claudio per sollecitare un riesame comune del lavoro! È evidente che, per noi, le scelte registiche attuate in “Totem” siano volte a sintetizzare significati precisi ed è altrettanto evidente che, come accennavo prima, trattandosi di sintesi ellittiche di metafore espresse per simboli non si può pretendere che tali significati vengano recepiti per filo e per segno dal pubblico (né ciò, che sarebbe senz’altro una qualità in un trattato scientifico, potrebbe costituire criterio di merito per uno spettacolo teatrale) però il fatto che potessero insorgere dubbi su chi fosse l’oggetto del massacro obiettivamente è stato spiazzante. Dal baratro di psicosi in cui saremmo certamente caduti ci ha salvati il repentino riaffiorare di un dettaglio appartenente alla fase poietica: nella versione originale il copione ruota intorno a “una gamba da tagliare” mentre in questa riduzione si parla di “antenne da strappare” e l’autore aveva accettato con una certa riluttanza questa libertà registica perché ciò sottraeva ambiguità alla vicenda svelando fin dall’inizio dello spettacolo che la vittima fosse il Padre giacché è l’unico personaggio dotato di antenne. Va precisato che nel copione la figura del Cristo nemmeno compare e forse aggiunte e sottrazioni di codici nel passaggio da un copione alla sua messa in scena finiscono in tal modo per rubarsi la scena a vicenda, restituendo al prodotto finale quell’esplosione di senso che è propria del linguaggio artistico…
    Grazie perciò a Daniele per avere esplicitato il dubbio e a Sergio per la successiva chiosa!

  4. sono a parigi pieno di cose da fare in questi giorni e non (ri)entro nel merito perché questo non è neanche il mio computer e devo ora sconnettermi: volevo solo segnalaren il commento di fabio franceschelli alla recensione di Totem uscita su Klp. Precisa tre fondamentalin punti; utili a chiarirsi sia per quellq che per questq recensione…

  5. Caro Daniele,
    non ti faccio perdere tempo, figurati. Siamo tutti sotto a un treno pure qui! 🙂
    Mi sembra che i chiarimenti di Fabio si riferiscano proprio direttamente (con tanto di brani di testo riportati in virgolette) alla recensione di Spinella, non alla mia.
    Se leggi (a questo punto, se RI-leggi) il primo paragrafo del mio pezzo, prendo giusto giusto le distanze da questa “moda della nuova drammaturgia”. Sono perfettamente d’accordo con Fabio sul fatto che è un’etichetta “vecchia” e, soprattutto, insensata. Basta leggersi quello che da novembre pubblichiamo anche sui QUaderni del Teatro di Roma e da sempre qui dentro per rendersi conto che etichette simili non ci appassionano neanche un po’ e che pensiamo che, anzi, siano dannose.
    Stesso valga per altre categorie come “postmoderno”, di cui nella regia di Di Loreto vedo una chiara ironia, stavolta sì, difficile da fraintendere.
    Se Spinella si mette a interpretare il testo, io mi sono limitato a leggerlo, per quello che mi ha trasmesso visivamente ed emotivamente. E per quello che tecnicamente metteva in scena.

    (aggiungendo anche un Cara Francesca)…
    Per farla breve trovo sia inutile e ulteriormente (per l’ennesima volta) astringente, soffocante, ghettizzante e un pochino miope mettersi a questionare su cosa una recensione debba o non debba essere. Soprattutto riguardo a una critica come quella di TeC che (ormai sono certo che lo abbiate imparato), senza comunque escludere il giudizio, punta piuttosto a comprendere, nel senso etimologico del termine, a contenere, a mettere in discussione perché solo così si cresce, tutti, e si completa un dialogo culturale. Dialogo culturale che sarebbe un monologo se si risolvesse in un semplice “hai capito” o “non hai capito” lo spettacolo. Non ho memoria di una sola recensione di queste che dica “a me lo spettacolo non è piaciuto, io non l’ho capito, a me non ha detto niente”. Se è capitato è stato nella forma “diario”, che ha tutt’altra motivazione e senso.

    Rispondendo a un paio di commenti bruschi al pezzo di Simone Nebbia su La Signorina Giulia di Malosti, lo stesso autore ha giustamente risposto “non sai quanto ci piacerebbe poter semplicemente dire che lo spettacolo è bello o brutto”. Ma non è questo il nostro mestiere. Tantomeno lo è sforzarsi per interpretare alla lettera quello che la somma di testo e regia *volevano dire*. So che né Fabio né Claudio vogliono questo.

    Per concludere dico la stessa cosa detta già in privato a Francesca: il problema nascerebbe se io avessi fatto disinformazione comunicando, che so, i nomi sbagliati di interpreti o teatro, oppure detto qualcosa del tipo: “certo che questa idea di Di Loreto di declinare il sacrificio sul Cristo invece che sul padre proprio non funziona, non regge, fa schifo”. In quel caso mi si sarebbe potuto rispondere “perché non hai capito nulla”. Ma nessun giudizio (tantomeno uno di gusto) è riservato a questa mia personale (visto che firmata) interpretazione *dello spettacolo*, non *del testo*. Quello che ho voluto comunicare con la mia critica era ben oltre.

    un abbraccio a tutti e grazie di aver letto.
    Sergio

  6. Santa Pace! ma che ho dato l’impressione de una che stava a rosicà?
    Ho buone ragioni per credere che né Fabio né Claudio aspirino a una interpretazione “alla lettera di quello che la somma di testo e regia *volevano dire*” e per quanto riguarda me ne sono sicura 😉 Mi sembrava, anzi, di aver scritto che lo trovo non soltanto impossibile ma soprattutto inutile. Obiettavo soltanto, Sergio, che quell’accenno all’uccisione di Cristo – che PRIMA delle precisazioni nella chiosa a Daniele sembrava riassumere un pezzetto di trama e non sic et simpliciter indulgere all’interpretazione di suggestioni – mi aveva fatto mettere in discussione il nostro lavoro di codifica registica. Ametterai che se uno “passa un messaggio” diverso da quello che voleva trasmettere (nell’allestimento di uno spettacolo così come nelle chiacchiere tra amici) qualche domandina debba porsela, no? Fare un’autoanalisi, insomma! Altrimenti a cosa serve il confronto con l’altro? E ciò vale tanto più se la persona che ci fa sorgere il dubbio circa l’efficacia della nostra comunicazione è per noi degna di stima e considerazione, come nel tuo caso. E lo sai!
    Tanto, poi, nell’interpretazione di un messaggio conta – né per fortuna né purtroppo ma semplicemente perché “è così” – la conoscenza dell’altro. Poco sopra tu hai scritto che l’ironia di questo allestimento non è fraintendibile. Eppure per il recensore di Klp lo è stato e – considerato l’acume critico che quel bel pezzo dimostra! – dubito che si tratti di un limite di perspicacia e presumo piuttosto che si tratti una presunzione arbitraria dovuta alla misconoscenza della peculiare attitudine al cazzeggio intrinseca in noi tre OliRave 😀
    Tutto qua. … E mi imbarazza pure un po’ fare queste precisazioni in pubblico perché sembra che voglia difendere l’asino mio. I commenti, le stroncature, i plausi, gli osanna e perfino l’indifferenza sono comunque una risposta a uno stimolo e in quanto tali aiutano a crescere. Per me è così.
    Perciò, lunga vita a TeC. E pure alla concorrenza. Tiè 😛

  7. E ci mancherebbe! A questo punto viva la concorrenza!
    Quanto al fraintendimento del postmoderno (ma che frase è?!?!) – che mai mi sognerei di additare come un limite del critico, anzi, soprattutto su un bel pezzo come quello di Spinella – trovo solo legittimo che Fabio sia andato lì a precisare. Perché quello sì allora ribalta del tutto il senso. È la classica storia dell’ironia che produce rabbia invece di un sorriso. Infatti diciamo “no, guarda, mi hai frainteso, ero ironico!” 🙂
    Francesca, il mio aggiungerti come destinataria del commento era soprattutto per riprendere con te il discorso già affrontato via email. Mi sembra che ci stiamo capendo, no? O sto fraintendendo? 🙂

  8. capendo capendo. non volvo dire che le cose precisate alla spinella andavan bene annche a liquidare te, scusa. Volevo solo mettere in comune e dialogo anche qui quel che era uscito li, trovo che queste stesse discussioni in post siano quasi più utili delle recensioni in se, come occasione di feedback e di dialogo….
    fabio, io posterei il tuo articolo anche su klp

  9. D’accordissimo con te, Daniele. Queste sono le cose migliori che possono accadere.
    E sono d’accordo sulla potenziale inutilità delle mere recensioni se non seguite da una discussione.
    Grazie a tutti dell’attenzione e di aver commentato.
    Sergio

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