Un asse produttivo collega lo Stabile di Torino con la Volksbühne di Berlino, prevedendo che due registi di riferimento, Fabrizo Arcuri quaggiù e René Pollesch lassù, realizzino una propria versione del cosiddetto Fatzer Fragment di Bertolt Brecht.
Una sorta di “testo esploso”, un tomo di appunti raccolti tra il 1926 e il 1930. Mai pubblicato perché mai finito. Nell’esatto periodo in cui l’Europa vedeva sgretolarsi la propria debole vocazione democratica Brecht, colto da una somma urgenza, sembrava voler scavalcare del tutto la linea di quella drammaturgia convenzionale che aveva già da sé ridisegnato. Il Fatzer non è semplicemente un testo incompiuto, nasce come una sorta di zibaldone di autocoscienza (scenica ma soprattutto etico-politica), una sorta di calderone in cui mettere a bollire i propri ragionamenti, impedendo che si raffreddino.
Due operazioni molto diverse quelle di Arcuri e Pollesch, andate in scena, dopo il debutto berlinese, alla Cavallerizza Reale di Torino. Proviamo a dar conto delle due, alla ricerca dei frammenti di Fatzer.
I superstiti di un plotone si trovano dispersi nel deserto di una guerra senza nome, le cui ragioni viaggiano sugli indici di povertà e scivolano sui contorni liquidi di una società distrutta: bisogna scegliere da che parte stare e definire se la violenza sia una deriva o un approdo. Sembra proprio di vedere, come un inquietante presagio, una rapida allegoria del lottarmatismo alla Baader Meinhof, in cui l’esplosione programmata del macro-potere generava cellule di micro-sopraffazione.
E infatti, memore di certe cifre stilistiche già dell’esperienza Artefatti, torna l’ossessione della riproduzione, della frantumazione dei livelli di racconto, tra primi piani in video, microfoni che distorcono e allontanano l’umanità del messaggio, l’incursione sonora (a orologeria gli interventi di Davide Arneodo e Luca Bergia) e la fatale presenza pirotecnica dei Portage, davvero abili nel fotografare un “crollo” concettuale e materiale.
Rispettando codici che gli sono ormai congeniali, Arcuri semina la scena di segni materiali, di oggetti sempre vivi, il cui senso è gridato dalla loro stessa essenzialità. Non c’è sul palco particolare che non venga utilizzato: dall’automobile che platealmente esplode, ribaltandosi e aprendo lo spettacolo con il suo fuoco impossibile da estinguere, fino ai cambi costume e al ruotare delle tre scatole che contengono gli ambienti scenici, ciascuna azione ha la propria utilità, disegna un percorso anti-logico, un viaggio dentro una giungla di materiali che riflettono su se stessi scambiandosi il ruolo. Ogni battuta contiene in sé il proprio contrario perché viene discussa sul palco da attori che si guardano in faccia oltre la maschera e strappano al pubblico la sua immunità: è la poetica di Arcuri che trova in questo Fatzer il terreno più fertile, finendo per rendere plausibile anche una forma così detonante e imprevedibile. I passaggi drammaturgici, di grande (e forse eccessiva) complessità intellettuale, avvengono rifiutando ogni fluidità, puntando anzi a perderla, tramite un ritmo che ricorda l’esplosione delle cariche di dinamite per demolire un palazzo. Fatzer come icona, come homo novus che ha saltato troppi stadi di evoluzione; la sua è una figura gelatinosa, un paradigma improvvisamente adatto ad ogni carattere. Tanto che ciascuno degli attori avrà modo di incarnarne il personaggio. Pesa purtroppo qualche eccessivo dilatarsi delle durate, quella tendenza che Arcuri conserva nell’indugiare sul proprio stesso linguaggio anche quando, come accade qui, il testo e il suo montaggio (con l’agile zampino di Magdalena Barile) sarebbero bastati a rendere chiare certe scelte.
Pollesch sceglie una via del tutto opposta. Del testo di Brecht non conserva nulla se non le lettere che compongono FATZER, stampate con carattere fraktur su un sipario usato una sola volta. In scena un solo attore, circondato da un folto coro di atleti, acrobati e ginnasti, rovescia sul pubblico un fiume di discorsi sconnessi illustrando una sorta di love story tra capitalismo e individualità, dalla quale la seconda esce schiacciata dal primo. L’espressione Kill Your Darlings, che dà il titolo, indica quella disciplina che porta lo scrittore a non affezionarsi alle proprie idee, a sacrificare certi passaggi in funzione del ritmo e della fluidità dell’insieme. A far da fil rouge in questo verboso e compiaciuto monologo è l’allusione a «quello che manca», con cui Pollesch tenta di rievocare quella perenne ricerca di Brecht, l’ansia di ricostruire l’irricostruibile, qualcosa che è già è morto, portata in effetti all’estremo in questa opera, incompiuta perché impossibile da compiere. L’ironia con cui il testo attraversa quel ritornello à la “potevamo stupirvi con effetti speciali”, porta l’attore a dire che una risposta diretta a certe domande non sarebbe tutto sommato sopportabile. E allora interviene il diversivo del grottesco, dell’ironia non-sense, di movimenti casuali intonando su temi celebri del pop-rock un testo nuovo e agevolando lunghe sequenze acrobatiche, senza apparentemente alcuna regia se non quella di un caos dadaista, tra scivolate sull’acqua e costumi da piovra.
Guardando i due lavori, per certi versi diametralmente opposti, emerge una messa a fuoco comune, quella sul concetto di fallimento, che di per sé sottende realmente molta poetica brechtiana.
Quello che manca è forse uno specchio che davvero rifletta l’animo umano e porti dunque a una cura per le sue perversioni. Per Pollesch la soluzione sembra essere il rumore di fondo: la squallida atmosfera circense mette in primo piano quei frammenti scartati, nel magma disordinato di un coro confonde ogni individualità, trasformandola in un desertico individualismo. Per Arcuri è la natura che ci spinge a un continuo e sterile conflitto, il sopraggiungere della violenza come soluzione prova, dell’uomo, da un lato le origini animali, ma ne definisce dall’altro la specificità, cioè il linguaggio. L’impossibilità di comprendersi, il “non-saper-stare”, una sorta di negazione del conforto che vede nella sopraffazione e nel perenne paragonare le proprie ad altre condizioni una sorta di masturbazione morale.
Sergio Lo Gatto
FATZER FRAGMENT / GETTING LOST FASTER
di Bertolt Brecht
traduzione e consulenza drammaturgica Milena Massalongo
versione per la scena Magdalena Barile
con Matteo Angius, Alessandra Lappano, Francesca Mazza, Beppe Minelli, Paolo Musio, Mariano Pirrello, Werner Waas
e con Enrico Gaido, Marta Montevecchi
musiche composte ed eseguite dal vivo Luca Bergia e Davide Arneodo
elementi performativi Portage
regia Fabrizio Arcuri
scene Gianni Murru
disegno luci Diego Labonia
video Lorenzo Letizia
costumi e assistente alla regia Marta Montevecchi
KILL YOUR DARLINGS / THE STREETS OF BERLADELPHIA
di René Pollesch
con Fabian Hinrichs
coro Eduard Anselm, Johanna Berger, Christin Fust, Hannes Hirsch, Emma Laule, Ronny Lorenz, Martina Marti, Fynn Neb, Rudolph Perry, Simone Riccio, Nicola Rietmann, Paula Schöne, Anna Smith, Lukas Vernaldi, Claudia Vila Peremiquel
regia René Pollesch
scene e costumi Bert Neumann
luci Frank Novak, Torsten König
drammaturgia Henning Nass