TeatrInScatola. Sala Lia Lapini. Il programma che l’anno scorso era dentro una scatolina di cartone riciclato stavolta arriva dentro una boccettina di plastica, riciclata anch’essa, con il messaggio dentro. Certe piccole resistenze artistiche, mi dico, arrivano come trasportate dalle onde degli oceani, certi di una sponda – approdo – che diventi terra. La propria. Ormai l’autunno conta la tappa senese con una cadenza di estrema puntualità: segno delle buone iniziative è la loro affermazione nei progetti e nella memoria di chi le frequenta. Così anche in questo folle autunno Siena schiude la sua bellezza oltre le Porte dell’accoglienza monumentale: mai fu più dolce, entrare in un fortino. La rassegna, che aveva aperto venerdì 21 ottobre 2011 con Western di Massimo Schuster (recensione) e andrà avanti fino al 27 novembre 2011 (leggi il programma), invita al secondo appuntamento uno spettacolo non “nuovo” – e questo ci sarà molto utile per l’analisi – di Accademia degli Artefatti: My Arm di Tim Crouch, con la regia di Fabrizio Arcuri e con in scena Matteo Angius ed Emiliano Duncan Barbieri. Questo invito è piuttosto comodo per introdurre l’altro, sequenziale, che coinvolge critici e operatori ad incontrarsi proprio sul tema larghissimo di cosa desideriamo intendere per “novità” in ambiti artistici e in generale sulla difficoltà di sistema nella gestione di produzione e circolazione delle opere. Il progetto, che si appoggia alla nostra ormai consueta Situazione Critica, chiama un diverso critico di una delle due webzine ogni volta all’incontro con un diverso operatore, dopo lo spettacolo.
My Arm è un’ottima conferma del progetto culturale di Accademia degli Artefatti attorno alla figura umana calata in una realtà che non sa più cogliere, scegliendo non a caso di dedicarsi alla drammaturgia contemporanea anglosassone che meglio di tutte ha saputo interpretare la moltiplicazione dei piani di realtà e ne ha portato a fondo il carattere grottesco che di essa è ovvia conseguenza. A conferma se ne aggiunge un’altra, frutto di una recensione già scritta tempo prima e che rinnova (e anzi amplifica) una partitura spettacolare che usa il corpo – anzi una sua parte ben specifica – arrivando a fare in modo che conti più della persona, indagando fino in fondo quell’esigenza delirante di sensazionalismo estremo in cui si afferma la società contemporanea.
Concluso lo spettacolo, con gli artisti e Simone Martini dell’Auditorium Le Fornaci di Terranuova Bracciolini (AR), ci si trova a parlare di meccanismi attorno al teatro. Il primo disagio è che questo discorso – mille volte affrontato all’uscita di mille teatri – nato come collaterale all’evento artistico, è diventato invece fondante laddove economie e dignità professionale vanno latitando. Si ragiona cercando dunque di oltrepassare l’ovvio (anche se giustissimo) stato di crisi e di grigiore, immaginando le relazioni fra gli eventi e le possibili cause della situazione (appunto, critica). Se nel primo incontro emergeva come i maggiori responsabili della crisi fossero gli operatori culturali, incapaci di coraggio nelle scelte e di curiosità verso nuovi linguaggi, in questo secondo si pone invece l’attenzione proprio su quei linguaggi che non riescono più a raccontare il presente e che riducono il nostro paese ai limiti della marginalità culturale. Se l’operatore deve svolgere una funzione mediana con il proprio pubblico, è l’artista che invece deve cercare di scommettere su di sé, sulla propria creatività: il coraggio mancante dell’uno è dagli altri che dev’essere suggerito, stimolato. Il grande deficit della drammaturgia contemporanea si riscontra proprio in relazione con le drammaturgie straniere, come in questo caso: calati nel presente, i testi anglosassoni sanno rappresentare la drammaticità di quel presente specifico, la nostra produzione (dunque ideativa prima che compositiva e distributiva) non raggiunge quasi mai livelli accettabili e non fa dunque percepire al pubblico che di questa realtà contemporanea si stia parlando. La ricerca è strutturata in ambiti molto più formali che contenutistici, quindi il rischio di quel sensazionalismo – che il testo di Crouch ad esempio mette in crisi – è rischio che in Italia si corre con grande pericolosità. La risposta italiana è in molti casi quella facile della didascalia naturalista, che da almeno cinquant’anni è però marginale e potrà essere materia di fiction televisiva, non più d’arte. Nella ricerca su linguaggi che abbandonino la sperimentazione non finalizzata culturalmente e nei contenuti davvero emergenti e brutalmente presenti dovrà essere la risposta: chi fa teatro combatte contro stimoli inarrestabili e morbosi di assuefazione, chiusure mentali e personali prima ancora della prova della scena, riduzione della dinamica creativa al proprio uso personale e non collettivo, finendo per tornare a sé stessi. La sfida è ben altra: che questi Teatri, finalmente, inizino ad uscire dalla Scatola.
Simone Nebbia
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Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Il Tamburo di Kattrin