“Gli incubi non sono brutti sogni, ma le belle descrizioni di uno stato del mondo che ci ossessiona e che, malauguratamente, finisce quasi sempre per riacciuffarci. Il mondo drammatizzato delle scene di teatro, dunque, sarebbe proprio questa solitudine a due delle scene della storia in cui si giocano i drammi del mondo. Ripensiamo a Shakespeare: All the world is a stage…“
Con dei puntini di sospensione termina quest’estratto da La conoscenza accidentale, Apparizione e sparizione delle immagini, di Georges Didi-Huberman, testo di chiusura del primo numero dei Quaderni del Teatro di Roma, a terminare un numero, ma ad aprire pensieri e analisi, lasciandoci abilmente in febbrile attesa del prossimo.
Si ha questa sensazione di golosità non del tutto appagata quando si termina la lettura di questa nuova rivista, diretta da Attilio Scarpellini e alla quale contribuiscono quelle firme che negli ultimi tempi hanno rappresentato una sorta di avanguardia critica romana – nell’accezione bellica del termine – e tra le quali ritroviamo pure due animatori di Teatro e Critica, permetteteci il trasparente conflitto di interessi per la rilevanza della scommessa messa in campo. La golosità di cui parlavamo in realtà è qualcosa di molto più pragmatico: è un bisogno. Ecco, la prima rivoluzione di questa rivista è nel colmare un vuoto: ovviamente la critica teatrale in questi ultimi anni è rinata, è andata in avanscoperta sul web dove dopo poco tempo ha piantato bandiera e fatto famiglia, dimenticandosi così del mondo cartaceo in cui era nata. Mentre agli ultimi esemplari, sui quotidiani, lo spazio veniva ridotto a colpi di machete, nasceva una nuova popolazione che faceva fiorire il dibattito sul web. Dei Quaderni c’è bisogno per tenere il punto della situazione, per rintracciare il filo rosso del pensiero, frammentato tra decine di espressioni, formati, riviste online, blog e pulpiti vari.
La seconda rivoluzione è nei modi di produzione: questa rivista ha un editore, come tutte le pubblicazioni, ma quell’editore è un teatro, lo Stabile di Roma. Un po’ come se nel pieno della Nouvelle Vague I Cahiers du cinéma venissero pubblicati dalla Pathé. Anche per questo le primissime parole con cui Attilio Scarpellini apre le danze nel suo editoriale sono: “«Questa non è una pipa, scriveva Magritte sotto un famoso dipinto che raffigurava per l’appunto una pipa». Questa non è una rivista promozionale del Teatro di Roma”. Ironica e allo stesso tempo ferma presa di posizione contro varie ed eventuali malelingue pronte ad affilare le proprie malignità. Infatti ecco cos’è una volta spogliata di quel pesante e ingombrante (ma inevitabile) abito istituzionale: “È il luogo in cui il Teatro di Roma ha voluto che una riflessione sul potere della scena e dei suoi linguaggi riprendesse corpo in un’epoca che appare non solo monopolizzata, ma quasi deformata dalla narrazione visiva.” Ecco che l’ambizione è perciò altissima ed è quella di “ribaltare la marginalità del teatro”.
In questi virgolettati rintracciati nell’editoriale c’è una chiara visione d’intenti, un’ambizione di guardare nella lente della scena per affondare lo sguardo sulla società, proprio in un momento nel quale probabilmente ci troviamo in un punto di svolta epocale per il nostro paese. La terza rivoluzione è nella forma con cui questa raccolta di scritti si presenta ogni mese nelle mani dei lettori/spettatori: non solo per lo stile e l’impaginazione, si direbbe rigorosi, ma che in realtà portano alle estreme conseguenze proprio il discorso di Scarpellini sull’epoca monopolizzata dalla narrazione visiva, concedendosi solo illustrazioni di artisti come Danio Manfredini, ma soprattutto perché la scommessa è anche quella di alzare il livello del discorso senza aver paura di essere noiosi. Non è una rivista di recensioni e, almeno per questo numero, sono gli approfondimenti il cuore della pubblicazione. Nella prima uscita, distribuita gratuitamente nei maggiori teatri romani e non solo (dal terzo numero a un costo minimo e simbolico di 3 euro) troviamo: un’analisi di Sergio Lo Gatto sul “brechtismo di ritorno”, ovvero dall’ Arturo Ui di Claudio Longhi a Orazi e Curiazi degli Artefatti; l’ironica e seriosa intervista di Graziano Graziani a Claudio Morganti; lo sguardo di Mariateresa Surianello sul teatro fisico e politico dei DV8; Simone Nebbia che ritorna sul dibattito innescato da Renato Palazzi a proposito del pubblico; Katia Ippaso che ci racconta l’ultimo romanzo di Valeria Parrella, Lettera di dimissioni (Einaudi, 2011). A questi contributi, creati dalla redazione – l’avanguardia romana per l’appunto – , si aggiungono preziosissimi scritti di collaboratori che offrono sguardi “innamorati” ad artisti come Pippo Delbono (Massimo Marino), Peter Brook (Piergiorgio Giacché e Georges Banu), oppure attraversano mondi e situazioni come nel caso di Lorenzo Pavolini e il Teatro Valle Occupato. Altri portano la propria testimonianza nel tentativo di detonare un dibattito più ampio: Rodolfo Sacchettini fa il punto sul Radiodramma e Michele Santeramo pone le basi per alcuni quesiti che serpeggiano nel nostro teatro ormai da qualche anno; che fine ha fatto la nuova drammaturgia? Qual è lo spazio per il teatro di parola?
Sulla prima copertina dei Quaderni campeggia una frase del drammaturgo Edward Bond: “Benedetta la città che fonda un teatro”, con speranza e fiducia la giriamo al consiglio d’amministrazione dello stabile capitolino: “Benedetto il teatro che fonda una rivista”.
Andrea Pocosgnich