Quinta edizione per TeatrInScatola, piccola rassegna che negli anni ha saputo diventare un piccolo appuntamento cult per i senesi e non solo. Un carnet di appuntamenti che fa da ponte tra la chiusura dei festival estivi, l’inizio delle stagioni e la pausa estiva. Ci si ritrova allora tutti intabarrati a commentare il freddo precoce di questa Siena sempre accogliente, stipati nel piccolo foyer della Sala Lia Lapini. Quindi innanzitutto un’occasione di incontro. Unito alla possibilità di vedere alcuni lavori nuovi e meno nuovi e il vincitore del bando annuale InBox, a tentare di essere protagonista è anche lo spazio di discussione intorno al teatro. A far da sponda a queste discussioni è anche il progetto Situazione Critica: redattrici e redattori di Teatro e Critica e de Il Tamburo di Kattrin sono invitati, post-spettacolo, a una conversazione aperta con un operatore teatrale ogni volta diverso, declinata però su un macro-tema: “Il nuovo è il prossimo vecchio?” Ci capita spesso, ultimamente, di interrogarci su certe logiche di produzione e distribuzione che regolano il teatro. Di solito si cominciano discorsi come questi con le parole “in tempi di crisi…” Ma la verità è che anche in tempi di boom economico, a definire la scala di priorità e valore del sistema teatrale, sono le possibilità di sostenere e far circolare un’opera d’arte. Anche prima che si cominci a questionare, di essa, la rilevanza all’interno di un discorso culturale o il salto di poetiche che rappresenta.
Il primo appuntamento ha trovato spazio dopo il debutto nazionale del divertentissimo spettacolo di Massimo Schuster (Théâtre de l’Arc-en-Terre, Marsiglia), Western. Schuster è uno dei simboli del teatro di figura italiano e della sua fortuna nel mondo: tra grandi successi internazionali, la partecipazione come docente al tempio della didattica che è la Scuola Superiore di Arti della Marionetta di Charleville-Mézières e la presidenza dell’UNIMA, ha vissuto 35 anni in Francia, dove tuttora la sua compagnia ha sede.
Il suo spettacolo, musicato da Paolo Fresu, è un pezzo classico di teatro da tavolo. Tutto funziona grazie ai macchinari scenici di un teatro barocco in miniatura. Quintaggio, cieli e arlecchini celano mini-riflettori e un sistema di tapis roulant su cui le figurine di cartone, animate a vista dallo stesso Schuster (coadiuvato nell’ombra da Silvio Martini), scivolano dolcemente. Nella trama classica di un western alla John Ford, si incastrano i personaggi chiave di una commedia umana: lo sceriffo, il cowboy, il petroliere, il proprietario terriero senza scrupoli, la prostituta dal cuore d’oro, il giovane eroe e addirittura il Presidente degli Stati Uniti e Clint Eastwood, che compare nell’affollata scena finale per dare benedizioni in tenuta da film di Sergio Leone. I disegni di Paolo D’Altan creano atmosfere e caratteri con grande vita e semplicità, lasciando al grande animatore lo spazio per la performance, giocata con maestria tra distanza di rispetto da osservare nei confronti dei pupazzi e una presenza attoriale imponente, in grado di interagire con la storia senza ammiccamenti.
È curioso che il primo appuntamento per parlare dei vizi di forma del sistema teatrale italiano sia con un artista come Schuster, che per tutta la durata non farà che ricordare come i casi elencati non siano un’esclusiva italiana, che anzi “è l’intero continente ad essere in mano alle logiche di mercato”.
Il nuovo potrebbe rapidamente diventare il prossimo vecchio finché si continua a forzare la produzione e la distribuzione del teatro in un senso bulimico che vuole sempre nuovi alimenti, che stravede per quelle “giovani realtà” e per il “ritorno dei vecchi maestri” (quasi come le reunion delle rockband tramontate) e si dimentica di quel che c’è in mezzo.
Luca Ricci, nato come regista di lirica (campo dove tuttora ritorna, soprattutto in produzioni straniere), cresciuto come regista sperimentale con la compagnia Capotrave e da qualche anno agguerrito operatore, tra l’ideazione di Kilowatt Festival e l’esperienza pioneristica di C.Re.S.Co., sostiene che “se son rose fioriranno”, intendendo che, se anche alcune nuove realtà vengono spinte come tali è poi loro responsabilità proseguire su un percorso abbastanza serio da confermare le aspettative.
Schuster parla di “dittatura del culto del nuovo”, una sorta di piaga contemporanea (ma nemmeno troppo) che genera una fame continua di “sensazionalità”, la ricerca incessante di qualcosa che almeno sembri innovativo. Ed è tuttavia lui stesso a denunciare un generale prevalere della forma sul contenuto, come se un certo mancato ricambio sia imputabile all’assenza, nei lavori prodotti, di una sostanza abbastanza forte da sopravvivere all’invecchiamento dei linguaggi. Ma forse il vero problema è anche che, dice ancora Schuster, “tutti pensano alla creazione e nessuno alla manutenzione”. Ci troviamo d’accordo, Luca ed io, a puntare comunque il dito verso alcuni operatori pigri che preferiscono appoggiarsi a un fenomeno modaiolo piuttosto che andare a indagare davvero le ragioni e la legittimità di quegli appellativi.
Se la critica ha perso molto del proprio spazio e della propria influenza come faro che illumina la nebbia delle poetiche e delle istanze, gli operatori hanno smarrito la sicurezza (anche ma non solo: economica) che li portava a rischiare e gli artisti, pressati dalla famelica richiesta di “nuovi studi” e nuove produzioni, non trovano tempo e modo di andare a fondo, con il proprio linguaggio, nelle ragioni che li hanno spinti a scegliere il teatro come mezzo d’espressione.
Di certo è un discorso che chiama in causa la necessaria assunzione di responsabilità da parte di tutte le categorie. La critica deve impegnarsi a mappare il lavoro e decifrare certi codici, gli operatori a leggere e verificare quelle mappe, gli artisti a proporre nuove coste, nuovi attraversamenti, nuovi confini. Il fatto che “giovane” significhi “nuovo”, “nuovo” significhi “buono” e che questo sillogismo decida venti e correnti è di per sé il segno dell’invecchiamento e della stanchezza di un’arte che va perdendo centralità, che invecchia come invecchiano gli oggetti, fossilizzandosi.
Per quanto potrebbe non dipendere solo da un fatto generazionale (l’anzianità, ad esempio, dei direttori degli Stabili), Ricci sostiene che, soprattutto in un sistema retto da logiche da fast food, abbassando la linea anagrafica tra gli operatori a capo delle strutture che muovono le economie più consistenti si presenterebbe l’opportunità di abbattere certe differenze e tornare a valutare la proposta artistica come ogni altro slancio vitale che, per crescere, ha bisogno di cura.
In fondo, anche da McDonald’s, a richiesta, servono l’insalata.
Sergio Lo Gatto
Leggi il programma di TeatrInScatola 2011
Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Il Tamburo di Kattrin