Stamattina promette pioggia, sopra le case, le chiese, la campagna laboriosa di questa Bassano di frontiera, paese di confine tra l’operosità e il silenzio. Acqua, tanta ne passa sotto i suoi ponti, a volte rischia di scendere dall’alto. È solo allora che ci si interroga sulla fragilità di certe coperture, sull’accessibilità dei ripari, sulla perentoria accortezza che ne limiti lo scroscio e l’intemperia. È questo il pensiero più accurato – e accorato – che scivola sotto gli altri e si va ad accovacciare dove la città gli regala il silenzio, dove può cercare in una riflessione che riannodi questi primi giorni di B.Motion 2011 e gli studi proposti dall’ultima generazione di Scenario 2011.
Ancora non piove, ma il cielo si sta coprendo pian piano di una coltre leggera e uniforme, affoga un po’ anche il respiro e comprime in una sensazione affaticata anche lo sforzo di quel sole che tenta di penetrarla. Mi guidano, l’atmosfera e il suo andirivieni, nei pensieri attorno al teatro che da anni mi trovo a guardare, che da anni qualcosa mi spinge a discutere, emendare, in una parola partecipare. Il motivo non lo conosco e spero di non trovarlo mai. Ma c’è il desiderio di continuare a farlo. La dedizione è un amore posato, la misura che ne accoglie i sospiri. Mi guida l’atmosfera per il suo carattere contraddittorio, ad ogni cambio di tempo, come tutti gli amori.
In ogni sala, in ogni teatro rinnovo allora quella misura di dedizione che il tempo sbiadisce, ma non cancella. La rende come questo cielo incupito che non smette di cercare feritoie agli squarci del sole. Ma il tempo muta rapidamente e radica una sensazione di inafferrabilità che – di quell’amore – mina la concretezza: escludendo i debutti del primo giorno, lavori fatti e finiti di compagnie ormai affermate, questi ultimi due giorni di B.Motion hanno mostrato gli studi dei lavori provenienti da Scenario, i vincitori e segnalati più alcuni progetti in via di sviluppo, cui si riconosceva evidentemente un valore. Sedendo in sala, in questi due giorni, un sentimento di confusa approssimazione mi ha spinto a considerare quanto – nonostante al giudizio non ci si possa o debba pronunciare prima che saranno conclusi – ci sia un difetto comune, anche se in diversa misura è ovvio, in ciò che dell’amore che porto è custode: la drammaturgia, l’evoluzione sentimentale di uno spettacolo, quella che oggi mi piace considerare in questa metafora come la corrispondenza di amorosi sensi, tra scena e platea. Pur nella bontà di alcune esperienze calorose come quella di Matteo Latino (vincitore con Infanctory) che nella bestialità trova una materia d’indagine molto personale e credo farà strada in questo lavoro se saprà affinare la costruzione affidandosi al suo bel testo e dedicandosi maggiormente alla cura tecnica, o quella dei vincitori della sezione “Per Ustica” Carullo/Minasi (con Due passi sono) che cercano un coinvolgimento nel pubblico con garbo e una certa dose di empatia capace di restituire un testo con semplicità ma con ancora troppa debolezza di costruzione, pur nella ricchezza di gusto estetico e nel rigore della tecnica che sceglie talvolta la plasticità e altre volte la sospensione di Foscarini:Nardin:D’Agostin (Spic e Span) ma che ancora sconta una freddezza eccessiva, unitamente al lavoro in nuce di Bersani/Vilardo (Le mie parole sono uomini) che cerca di instaurare un rapporto con l’handicap fuori di giudizio ma ancora non sa mostrare una possibilità evolutiva oltre lo spunto evidente, pur in tutto questo quel che sento mancare come disperante richiesta d’amore tradito è una magia che il teatro non riesce a restituirmi se non in poche e perimetrali esperienze. M’impaurisce il pensiero d’amore, per un oggetto amoroso che sento familiare, ma in cui sento elementi che l’hanno profondamente mutato e lo portano lontano da me. L’incanto non è parola che si traduce e si accosta all’estetica formale, lo è invece la manomissione delle certezze, la potenza di un carattere scenico che fa senza equivoci la qualità di un germoglio artistico. Ho voglia, ho bisogno d’innamorarmi. Altrimenti che io sia in sala, per me e solo per me sia chiaro, smette di avere senso.
“Speravo di tornare a casa con uno spunto, qualcosa che mi rendesse diversa, all’arte se non puoi chiedere questo… ma sono rimasta delusa, ho fatto molti chilometri e torno molto amareggiata”. C., che viene da Rovigo fino a qui, non ci conosciamo ma mi fermo a parlare con lei, le leggo negli occhi che abbiamo bisogno l’uno dell’altra, alla fine di tutto. Resto ad ascoltarla: “a volte penso anche che sia colpa mia, come non fossi più capace di sentire, ma poi mi dico che no, non può essere: io sento, in altre cose sento e anche molto, perché a teatro non mi accade più?” C. ascoltami, leggerai o meno queste parole, non so, ma poco fa qui sopra il cielo si è aperto, le nubi si sono diradate, il sole ha fatto il suo ingresso in questa giornata. L’acqua è rimasta tutta del fiume, scorre dolcemente, di fianco, e non colpisce cadendo dal cielo. E allora dobbiamo avere fiducia, lottare scrivendo e parlando assieme, soltanto così alla fine, il sole rinasce e di nuovo c’innamora.
Simone Nebbia
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Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Il Tamburo di Kattrin