La caduta. E nel silenzio sovrano, d’un tratto, il colpo di teatro.
Tutto inizia dai maestri, decisi a presentare un libro alla stessa ora dello stesso giorno. Ma un libro diverso in un luogo diverso. Così mentre Attilio Scarpellini (impegnato invece da oggi nel convegno CORE sulla danza all’Opificio Telecom Italia) è a presentare il romanzo di Raffaella Battaglini (L’aria di casa, per Fandango), Antonio Audino apre questa seconda settimana di Teatri di Vetro introducendo la raccolta di conversazioni con dieci drammaturghi cui Silvana Matarazzo ha dato titolo La parola e la scena. Ad ascoltare «drammaturgia» salto in piedi e mi presento a La Villetta, poco lontano dal Palladium, per ascoltare Chiti, Manfridi, Santanelli e Tarantino discorrere del grande rimosso del teatro contemporaneo: la parola, da capire invece il suo rapporto con la scena. Questo perché non riesco a non pensare il grande equivoco: cos’è più la drammaturgia? Davvero ancora solo il testo? Come rapportarci al quarto di secolo che l’ha proposta invece come evoluzione del nucleo spettacolare, parabola strutturale, connessione di elementi creativi in funzione della complessità? Mi domando se sia questa distanza fra gli scrittori – che non vorrò chiamare drammaturghi – e lo spazio scenico, quindi fra la parola e la scena, colpevole della deriva di senso oggi così diffusa. Le domande mi scorrono di fronte, sono belli così schierati e vivaci, se non fosse che s’è fatto tardi vorrei proprio domandare, quando m’accorgo che, come sempre, non è nell’evento il vero evento, ma poco di lato: di fianco a me un signore muto fracassa il silenzio, squarcia il sopore, si rompe la sedia sotto di lui, finisce a terra. Il corpo batte la parola, segno vivo sopra l’essere umano (che tuttavia, si rialza).
Veronica mi dice che ho fatto tardi anche oggi e allora si corre per il primo spettacolo, subito dopo: il Palladium ospita Teatro Rebis con Di una specie cattiva, lavoro del 2008 profondamente vocato alla stimolazione emotiva, sia sonora che visiva; subito mi colpisce una scena vivida, densa, accentrando lo sguardo sulla performer coperta di stralci di nuvole bianche, da cui si libera pian piano per una nascita sghemba che sembra dire – per paradosso – quanto liberarsi sia costringersi alla spoliazione; altro elemento forte è una parola vitale, un testo lirico (voce off) che si ispira alla ferocia espressiva di Sylvia Plath e ne traccia il difficile rapporto con l’esistenza. Tuttavia, dopo questi primi buoni sentieri, l’intero spettacolo va perdendosi per quella che credo una mancata idea di fondo attorno alla materia da organizzare: sembra spesso, nelle giovani compagnie, essere lampante un’ottima capacità tecnica performativa in relazione a una qualità drammaturgica scadente, che denuncia l’assenza di una finalità espressiva concreta. Eppure questi ragazzi sono coraggiosi, hanno a ben vedere una vocazione al segno pur conoscendo più i significanti del significato: la speranza è che ne trovino l’unione in favore della completezza di senso.
Una piccola carovana si sposta verso la Casa dei Bimbi, dove vedremo Stelle danzanti nel corpo e la voce di Chiara Tomarelli, a piedi scortati dai nostri discorsi, sorrisi, scambi di opinione sempre accesa e partecipata: qualcuno adesso mi trovi un ambiente più vitale di questo. Se ne dovrà dire un giorno, più di queste mie righe. Lo spettacolo è all’aperto, nel colonnato interno, si tratta di una narrazione pura, un racconto confidenziale che tenta di spiegare piuttosto che astrarre quel fascino per un luogo inaccessibile eppure urbano, isola nella città di solitudine: il carcere. La partenza è su note positive, la Tomarelli inizia definendo che “Il carcere produce libertà”, e sotterranea la memoria va al paradosso per eccellenza del ‘900, la scritta all’entrata di Auschwitz “Il lavoro rende liberi”. Quindi si ipotizza un lavoro d’indagine artistica in questa direzione. Invece tutti i 70 minuti di spettacolo si susseguono stancamente in una struttura annoiata e consolatoria, che replica quella da fiction televisiva: la Tomarelli fa informazione e non teatro, resta piatta la traduzione scenica così come il trattamento della materia s’infrange nel macchiettismo di una narrazione che non si pone obiettivi altri e resta confinata in sé, alla sola mostra degli strumenti.
È molto tardi quando sediamo al Palladium, in pochi, per assistere alla Cara Medea proprio di Antonio Tarantino, che Francesca Ballico per Teatri di Vita porta in scena; è molto tardi e la stanchezza è sovrana, ci si prova per militanza e spirito di sacrificio all’attenzione, ma la scelta registica della Ballico è un continuo invito a cedere: Medea ai giorni nostri è in scena vestita da prostituta, accanto a lei un telefono a gettoni, la sua storia, il suo dramma di donna ripudiata e offesa, privata dei suoi diritti umani, per la sua estranea e mediata presenza di contatto passeranno. L’evoluzione dello spettacolo è vittima di una monotonia disarmante, uccide l’attenzione reiterandosi in un continuo dialogo telefonico per la quasi totalità in una lingua straniera inventata, che ormai canonicamente è la «lingua da prostituta dell’est», mai concedendo uno spazio di comprensione poco migliore e annegando in una staticità espressiva senza via d’uscita. Ai tre quarti, al centro esatto della fila riservata, indegnamente cedo: il taccuino rigido mi cade dalle mani, nel silenzio un tonfo, cade l’attenzione, cade la parola, cade la drammaturgia in contemplazione del testo drammaturgico.
Ma mi risveglia, d’improvviso lontano dalla scena, il colpo di teatro.
Simone Nebbia